“Destinazione America”, il nuovo romanzo di Gary Shteyngart. Antonio Monda intervista l’autore per La Stampa

Il nuovo libro di Gary Shteyngart, intitolato Destinazione America, conferma l’alta qualità narrativa di un romanziere diventato di culto sin dal primo libro, e il suo talento, raro, di divertirsi e soffrire insieme al lettore. Questa condivisione, profonda e a volte lacerante, è un risultato per il quale è necessaria una grande maturità espressiva: sono molti i libri che risultano troppo divertiti per essere divertenti, e ancora di più quelli che cadono nella trappola del sentimentalismo.

Per apprezzare le sfumature di questo notevole romanzo è necessario ricordare qualcosa dell’autore: Shteyngart è nato da famiglia ebrea a San Pietroburgo quando ancora si chiamava Leningrado, e ha vissuto l’infanzia in una piazza dominata da una gigantesca statua di Lenin. Nonostante si sia trasferito a New York quando aveva sette anni, quell’immagine, e il peso dell’oppressione del regime comunista, ne hanno segnato per sempre l’espressione artistica: la sua grande ironia nasce dalla necessità di catarsi. Sin dai primi giorni l’America ha rappresentato un approdo contraddittorio, pieno di ingiustizie violenze e assurdità, ma anche, e soprattutto il paese dove ha assaporato cos’è la libertà.

Questo nuovo romanzo, pubblicato in Italia da Guanda con traduzione di Katia Bagnoli, è una tragedia buffa ambientata all’epoca delle elezioni che hanno portato alla presidenza Trump, e ha per protagonista Barry Cohen, un miliardario che si trova nel mezzo di una profonda crisi professionale ed esistenziale. Barry è quello che Tom Wolfe definiva masters of the universe: vive nel lusso più sfrenato e gestisce un patrimonio di due miliardi e quattrocento milioni di dollari, ma sono in corso indagini sul suo operato, e al figlio di tre anni viene diagnosticata una grave forma di autismo. Incapace di reggere la pressione, decide di fuggire in pullman per andare a trovare una antica fidanzata a El Paso, e lascia la responsabilità del piccolo alla moglie Seema, figlia di immigranti indiani, la quale inizia una relazione sentimentale con uno scrittore del Guatemala.

«Barry è un uomo che ha tutto per essere disprezzato» racconta nel suo appartamento vicino a Gramercy Park «eppure non riesco a odiarlo. Per scrivere questo romanzo ho frequentato questo tipo di gente, e sono rimasto sconcertato dalla superficialità, la solitudine e la necessità di calore, o almeno qualcosa che desse senso all’esistenza».

Non è un stereotipo quello del ricco infelice? «Lo pensavo anch’io e spero di averlo evitato nel libro, ma più mi sono addentrato in quel mondo e più ho avuto la sensazione che una grande ricchezza, specie se accumulata in maniera dubbia, sia una maledizione». Bíllie Holiday disse in un’intervista “sono stata ricca e sono stata povera: ricca è meglio.” «È una bellissima battuta ed è ovvio che la povertà è terribile e porta ulteriore miseria. Diciamo che è errato identificare la ricchezza con la felicità, o con la soluzione dei problemi più importanti. Ma mi fermo qui, altrimenti mi accusi di un secondo stereotipo».

Il libro ha pagine molto divertenti, ma il tono è molto più malinconico rispetto al passato. «Sono più vecchio e, spero, più saggio e profondo. Ho scritto i primi libri che ero ventenne e poi trentenne: passavo la vita andando da un party all’altro, e New York è eccitante come nessun posto al mondo. A volte questo distrae dall’approfondimento, ma ora sono padre di un bambino di 5 anni e con mia grande sorpresa mi preoccupo anche delle catastrofi ambientali».

Barry è un uomo di grande successo, ma rimane estremamente infantile. «Amo le persone complicate, e, nella sua superficialità, credo che lo sia: è un miliardario rimasto bambino e questo è nello stesso tempo comico e tragico. Barry è un Peter Pan che nemmeno si rende conto dei danni che fa: è convinto di meritare il successo e tutti i suoi privilegi, ma perde miliardi dei suoi investitori continuando a guadagnare».

Lei ha visto con i propri occhi gli elementi di spietatezza del capitalismo in America: è ancora la terra delle opportunità? «Sì, certamente, anche in questo momento di decadenza e volgarità, perché ha nei suoi geni l’idea di libertà».

Barry è un miliardario originario di Queens, che ha un evidente complesso di inferiorità camuffato da superiorità: impossibile non pensare a Trump. «Non posso negarlo, ma ho iniziato a scrivere prima che fosse eletto e non credevo vincesse. Ho aggiunto solo in seguito dei riferimenti, e Queens è anche il mio quartiere. Barry, che è un repubblicano, ne capisce il pericolo quando dice “sta cercando di trascinarci tutti al suo livello».

Lei racconta con sconcerto le degenerazioni del capitalismo: Barry beve whisky giapponese da 33.000 dollari alla bottiglia. Esiste secondo lei un capitalismo buono? «Penso che esista, ma forse ancora non l’abbiamo trovato: gli altri sistemi si sono rivelati peggiori. Ed esiste anche quel whisky: mi è stato offerto una sera che mi ero intrufolato in una casa di uno di questi padroni dell’universo. Rimasi colpito dall’adorazione narcisista del successo e l’indifferenza per il resto del mondo, mentre bevevo almeno 5.000 dollari».

Barry intraprende il suo viaggio senza telefono, carta di credito né ricambio di abiti, ma con una valigia piena di orologi di lusso. «Devo confessarlo: colleziono orologi, è la crisi di mezz’età. Esistono anche video in cui ne parlo».

Perché presenta i suoi libri con dei trailer cinematografici? «Perché la gente legge sempre di meno: forse riesco a conquistare qualche lettore affidandomi ad attori popolari come Ben Stiller e James Franco. Il mondo dell’editoria è cambiato radicalmente, ed è stato proprio grazie ai trailer che la Hbo si è accorta del romanzo: lo ha appena opzionato e ne farà una serie con Jake Gyllenhaal».

Barry fugge dalla propria esistenza come Harry Angstrom in Corri, Coniglio di John Updike. «Anche questo non posso negarlo, anche se i bellissimi libri di Updike sono ambientati nel suo universo wasp. Io tento di raffigurare un mondo più contemporaneo dove tutto è mescolato, e il mio sguardo parte dal basso. Sono un ebreo di San Pietroburgo cresciuto a Queens, non dimenticarlo».

Antonio Monda, La Stampa 27aprile 2019