[ACCADDE OGGI]

Nasce a marzo e scrive: “Marzo: nu poco chiove e n’ato ppoco stracqua torna a chiovere, schiove, ride ‘o sole cu ll’acqua. …”.  Muore il 4 aprile 1934 aspettando poeticamente maggio e aveva scritto: “Era de maggio e te cadéano ‘nzino, a schiocche a schiocche, li ccerase rosse. Fresca era ll’aria, e tutto lu ciardino addurava de rose a ciento passe.” È Salvatore Di Giacomo tra i più grandi poeta di Napoli che insieme a Ernesto Murolo, a Ferdinando Russo, a Libero Bovio e a E. A. Mario siede nell’Olimpo della canzone napoletana.

Figlio di un medico lasciò gli studi in medicina perché il suo animo non gli consentiva di guardare le membra straziate degli uomini e così ricorda l’abbandono degli studi decisa mentre assisteva ad una lezione di anatomia “Non ne potevo più; mi si rivoltava lo stomaco. Senza guardarmi attorno, senza salutare nessuno, infilai il corridoio e feci per ascendere, in fretta e furia, la scaletta. In cima il bidello si preparava a discendere, con in capo una tinozza di membra umane. I gradini della scaletta, su per i quali erano passate centinaia di scarpe gocciolanti, parevano insaponati. Il bidello scivolò, la tinozza – Dio mio! – la tinozza rovesciata sparse per la scala il suo contenuto e, in un attimo, tre o quattro teste mozze, inseguite da gambe sanguinanti, saltarono per la scala fino a’ miei piedi!”.

Decisamente non poteva essere quella la sua missione anche se, in quanto a osservare, egli fu un osservatore attentissimo del costume, delle ansie e delle sofferenze del suo popolo. Come dimenticare, infatti, il Di Giacomo drammaturgo che descrive il dramma di amore di Assunta Spina o il profondo e commovente omaggio all’amore di una mamma in O mese mariano.

Scelse di fare il giornalista e il bibliotecario perché il suo mondo e la sua vita erano dedicate alle lettere. Firmò il Manifesto degli intellettuali fascisti con, tra gli altri, Gentile, D’Annunzio, Ungaretti e Soffici e fu difeso da Benedetto Croce, da Montale e da Matilde Serao quando con spocchiosità provinciale volevano affibbiargli l’etichetta di poeta dialettale; don Benedetto infastidito sentenziò “è un poeta e basta!”.  Fu anche Accademico d’Italia. Una delle sue ultime poesie dal titolo “Aspetta ‘a primavera” recita: “…Ma che buo’? Ma che guarde, tanto lontanamente, anema mia scuieta? Che desidere cchiù, si è troppo tarde?

(Franco Seccia/com.unica, 4 aprile 2018)