I cambiamenti strutturali legati all’innovazione tecnologica. Intervista al responsabile della divisione economica dell’«Israel Innovation Authority»(La Stampa)

Oltre la «Start-up Nation». Da due anni Israele ha rivoluzionato l’architettura istituzionale che sovraintende all’ecosistema innovativo del Paese. Il famoso «Chief scientist office», protagonista della nascita della «Start-up Nation» negli Anni 80 e 90, nel 2016 è stato trasformato nella «Israel Innovation Authority». Un organismo indipendente, anche se parte del governo, organizzato come un’impresa. Ci sono un presidente e un amministratore delegato (entrambi imprenditori) e un team con varie divisioni. Ed è sparita una parola chiave: scienza. Se, tradizionalmente, occupavano il posto di «responsabile scientifico» illustri studiosi o professori universitari, oggi l’ad è l’ex responsabile di Apple Israel.

Così, mentre nelle business school si studia il caso israeliano e il mondo si reca a conoscere le modalità di trasferimento tecnologico di Israele, a Gerusalemme si guarda oltre. Quest’anno il Pil pro capite israeliano ha superato quello giapponese e la disoccupazione è al 4%, un livello che gli economisti considerano di «piena occupazione». La crescita è da due anni sopra il 3% annuo, la performance migliore tra i Paesi Ocse.

Cosa c’è, dunque, che non va? In realtà molti segnali preoccupanti hanno attirato l’attenzione degli analisti. Innanzitutto le disuguaglianze. La torta (il Pil) è più grande, ma non è divisa in parti uguali. Inoltre l’immagine di un Israele super-innovativo rimane legata ai settori hi-tech e all’efficienza del trasferimento tecnologico università-impresa, toccando marginalmente gli altri settori. La sfida che Israele sta affrontando, quindi, è quella di una nuova trasformazione economica, in cui non appoggiarsi al solo settore dell’alta tecnologia, ma diversificando la composizione industriale per assicurare una partecipazione più uniforme alla crescita futura. Ecco perché la persona giusta per comprendere questo cambiamento strutturale è Uri Gabai, «Chief strategic officer» e responsabile della divisione economica dell’«Israel Innovation Authority».

L’economia israeliana sta andando molto bene, perché, allora, è necessario cambiare?
«Un governo ha la responsabilità di guardare avanti. Da quando ho assunto il mio ruolo non abbiamo fatto altro che guardare ciò che non andava e formulare strategie. È lo spirito ebraico: si deve lavorare per migliorare».
Avete messo scienza e ricerca in secondo piano, sostituite dalla nozione di innovazione. Questo cambiamento radicale, però, sembra avvenuto in sordina: è così?
«Meno male! Le rivoluzioni riescono meglio quando avvengono sottotraccia. Battute a parte, il budget annuale di questa istituzione è sui 400 milioni di euro, mentre riceviamo 1300 progetti ogni anno. Con queste dimensioni è facile capire che ci vuole tempo per implementare una transizione». 
Ma la differenza rispetto all’importanza del trasferimento tecnologico nello sviluppo della «start-up nation» non è sorprendente?
«Israele ha saputo creare una forte industria della Ricerca&Sviluppo, che ora ce la può fare da sola. A fine Anni 90 il 25% dei fondi proveniva dal governo, mentre oggi i fondi governativi possono essere quantificati tra il 4 e il 5% del totale. Ormai gli investimenti sono quasi tutti privati. In Israele lavorano nella ricerca 320 imprese multinazionali che non hanno bisogno del governo. Se Google viene in Israele, non ha necessità di un supporto governativo». 
Il settore, tuttavia, crea posti di lavoro e crescita e, quindi, perché non continuare a sostenerlo?
«È un punto cruciale, perché ci lascia insoddisfatti. La proprietà intellettuale che scaturisce dal processo di ricerca e sviluppo in Israele viene poi fatta crescere all’estero. È giusto che sia così, ma il risultato è che poche start-up si sviluppano in Israele. E se una start-up, nata in un nostro incubatore, diventa un player mondiale, espandendosi nella Silicon Valley, mi fa piacere, ma crea posti di lavoro nella Silicon Valley e non in Israele». 
Qual è la percentuale di occupati nel settore delll’high tech?
«È cresciuta fino ad arrivare all’8%, poi si è fermata. Rimane stabile, ma non riesce più a crescere. Essendo Israele un Paese piccolo, non riusciremo a formare così tanti ingegneri quanti ne richiederebbe l’hi tech».
E il restante 92%, invece, dov’è impiegato?
«Nell’agricoltura e nel turismo e soprattutto nella manifattura tradizionale. Israele ha problemi di competitività in molti settori che non sono Ricerca&Sviluppo. Una sfida per noi dell’Authority è colmare il divario. Continueremo a investire sull’istruzione, ma dobbiamo andare oltre, perché vogliamo vedere un vero impatto economico dell’innovazione. Per questo ci vogliono le imprese tradizionali, quelle che chiamiamo “complete companies”». 
Sembra un programma di recupero della manifattura in stile Donald Trump: è così?
«È una strategia che studiamo da anni e il Presidente Usa non c’entra nulla. Si tratta di essere pragmatici. Se non avessimo progettato questo cambiamento, continueremo ad avere un’isola, che potremmo chiamare “Tech Israel”, in cui tutti sono ricchi, mentre il resto dell’economia arranca. Vogliamo invece tentare di portare il modello di trasferimento tecnologico che ha fatto crescere l’hi-tech nella manifattura, eliminando quasi totalmente la burocrazia e finanziando progetti innovativi, per esempio su automazione e digitalizzazione».
Innovazione e automazione sono spesso viste come una minaccia per i posti di lavoro. Come si possono sfruttare per aumentare l’occupazione?
«È l’unico modo per sopravvivere. Come ben sapete anche voi in Italia, se un’impresa manifatturiera chiude, è persa per sempre. È meglio ridurre la forza lavoro che chiudere. Perché, se si resta competitivi, si può crescere: le imprese che tornano a essere competitive riprendono anche ad assumere». 
Quali prospettive di collaborazione vede ora con l’Italia?
«L’Italia è la seconda manifattura d’Europa. Ci sono da sempre molti rapporti con imprese italiane, ma dovrebbero, e potrebbero, essercene molti di più».

Dario Peirone, La Stampa 12 settembre 2018