Il grande scrittore francese morto a 91 anni. Celebre per “Venerdì”, un ribaltamento di “Robinson Crusoe”” e “Il re degli ontani”.

A 91 anni, isolato nella sua casa di Choisel, lontana quanto basta da una Parigi mai amata, alla cui mitologia si era sempre dichiarato allergico preferendo il verde della campagna e il profumo degli alberi, se ne è andato Michel Tournier, uno dei maestri della letteratura francese del secolo scorso. Se ne è andato quando l’attualità del discorso letterario, il cicaleccio mediatico sembravano averlo dimenticato.

In realtà, Michel Tournier era uno di quei rarissimi autori che costruiscono in vita la loro classicità, e la cui scomparsa quindi sembra non cambiare nulla del loro stato. Non ho mai avuto l’occasione di incontrarlo, nelle mie tante scorribande francesi: ma ho avuto modo tante volte di sentirne parlare come se fosse avvolto da un’aura mitica, come se, appassionato interprete di miti letterari, fosse oramai un mito lui stesso.

Aveva avuto un’infanzia parigina triste, con lunghe vacanze in una Germania la cui cultura influì profondamente su di lui. Vide di persona il trionfo del nazismo, conobbe la Parigi occupata. Nel dopoguerra fece una vita da bohémien. Il mancato accesso all’insegnamento lo portò a diversi lavori disparati, dalla radio ai giornali. Poi, dal 1960 il ritiro a Choisel, in campagna.

A 43 anni pubblicò il suo primo romanzo. Si trattava di una superba rilettura che capovolge il senso del Robinson Crusoe di Defoe, in cui è il selvaggio Venerdì a convertire man mano il rappresentante della civiltà dei bianchi naufragato sulla sua isola, mostrandogli le vie di una esistenza diversa e primitiva. Il romanzo era intitolato Venerdì o il limbo del pacifico. Il successo fu grandissimo. E di doppia natura: lo premiò l’Académie Française, lo premiò il pubblico. Piacque subito ai letterati italiani più fini e con le più attente antenne internazionali: Italo Calvino lo indicò a caldo come esempio di una tendenza a «erotizzare la cultura», in gioco di riscrittura e rifacimento «tra miti e idee che può dischiudere giardini di delizie visionarie ma deve essere praticato con supremo distacco». Dopo quattro anni esce la versione per l’infanzia, Venerdì o la vita selvaggia. Letto in tutte le scuole, contribuisce a rendere universale e trasversale la fama di Tournier.

Nel 1970, il suo romanzo più noto, Il re degli ontani. Il titolo è mutuato da una ballata di Goethe, e riflette gli interessi per la germanistica tipici della famiglia da cui Tournier proviene. Vi si intrecciano elementi mitologici, quelli delle più cupe leggende nordiche, con i loro orchi malefici, e elementi storici quali l’avvento del nazismo in Germania e il suo diffondere ovunque la peste delle sue concezioni e delle sue persecuzioni. Il protagonista, Abel Tiffauges è un garagista parigino che sente una ambigua attrazione per i ragazzini. Chiamato alle armi e fatto prigioniero in Germania, diventa complice degli orrori hitleriani, sino a essere indicato come l’orco di Kaltenborn, la fortezza dove le SS selezionavano i ragazzi in vista della creazione di quell’abominio che è la razza pura.Il romanzo si presenta come naturalistico (uno dei romanzieri preferiti da Tournier è Zola), ma attraversato da soffi di spirito mitico e controllato da quel distacco ironico sempre presente nella sua opera.

Ebbe il premio Goncourt e fu la definitiva consacrazione dell’autore. E sicuramente l’apice della sua arte. Vennero poi altri romanzi come Le meteore, del 1979, o La goccia d’oro del 1986, o Éléazar, del 1996. L’orizzonte si allargò sino a comprendere temi biblici e storici, mentre proseguiva il lavoro saggistico, spesso a sfondo autobiografico. Ma Tournier rimane agli occhi di tanti lettori l’autore di quei primi romanzi tra realtà e visione, storia e mito, che ne hanno definito per sempre la classicità.

Giuseppe Conte, IL GIORNALE, 20 gennaio