Nella rivoluzione cinese il problema culturale ha avuto sin dall’inizio un’importanza che non trovava termini di paragone in alcun altro processo rivoluzionario. Il condizionamento ideologico aveva avuto nel quadro delle strutture sociali tradizionali un certo peso, altrettanto la stessa funzione che i detentori della cultura si erano assegnati nell’esercizio del potere economico e politico. A questo si legava il concetto di “responsabilità”: lo sfacelo in cui stava cadendo la Cina nel periodo della prima guerra mondiale non poteva essere il risultato di una colpa degli uomini di cultura, o di una loro carenza e insufficienza. Come classe dirigente erano stati sostituiti dai militaristi, nessuno aveva più bisogno della loro mediazione in un paese dominato dai “signori della guerra” che erano diventati gli intermediari spregiudicati degli interessi delle potenze straniere. Anche dal punto di vista economico gli intellettuali erano stati gravemente impoveriti, la stessa cultura tradizionale era un bene senza valore economico da quando erano stati aboliti gli “esami imperiali” nel 1906, mentre la cultura moderna di origine occidentale era più un mito che una realtà raggiungibile.

Nel 1911, in seguito alla rivolta Xinhai la dinastia Qing venne rovesciata, l’imperatore Puyi (il famoso “ultimo imperatore” immortalato da Bernardo Bertolucci) abdicò, determinando la fine della dominazione imperiale. Negli anni precedenti alla rivoluzione del 1911 gli intellettuali cinesi progressisti avevano creduto fermamente nella possibilità di fondare un nuovo tipo di struttura culturale e si erano uniti nello scopo di fondare un nuovo sistema scolastico, operando nel quadro del movimento di Sun Yat-Sen, ma ad uno ad uno furono allontanati, umiliati e in alcuni casi assassinati dai notabili locali, che sfruttavano i contadini, e dai militari che vedevano nelle scuole un mero strumento di corruzione.

Molti intellettuali si suicidarono, ma anche tra coloro che non si suicidarono o che non furono assassinati, la fame, la malattia, la fuga, la miseria, la rovina economica della famiglia aprirono enormi vuoti. In quest’atmosfera nacque, tra gli intellettuali più avanzati, la convinzione che era necessario ribellarsi a tutto questo. Il confucianesimo, con la fitta trama di norme ed etichette, e la morale del “consenso”, furono visti gradualmente come cause precise dell’acquiescenza dei cinesi di fronte allo sfacelo del Paese. Per fra fronte alla conseguenza di fatti politici come l’accettazione delle “21 domande” da parte di Yuan Shih-k’ai o la connivenza con la dominazione giapponese, per salvare la Cina era necessario rinnovare completamente i valori e i principi che erano alla base della società cinese. Nel 1915 apparve il primo numero della rivista Gioventù Nuova, che nonostante le persecuzioni poliziesche, divenne l’araldo delle idee rinnovatrici che influenzò la generazione che diresse la rivoluzione cinese fino al 1960. Tra il 1918 e il 1919 numerose altre riviste si affiancarono a Gioventù Nuova per portare avanti, su più fronti, la lotta per “la scienza e la democrazia”. In questa fase assunsero grande rilievo la associazioni giovanili e studentesche che pullulavano in tutto il paese e che diventarono veri e propri nuclei culturali e politici. La Cina non ci guadagnò dagli esiti della prima guerra mondiale: alla Conferenza di Pace di Parigi, dopo la sconfitta della Germania, si stabilì la cessione dei territori cinesi occupati dai tedeschi al Giappone, anziché restituirli alla Cina stessa (questione dello Shandong).

Il 4 maggio 1919, tremila studenti, appresa la definitiva decisione dei grandi di allora a favore del Giappone, si riunirono al centro di Pechino, di fronte alla Porta della Pace Celeste (Tien An Men), formarono un corteo e marciarono fino alla residenza dell’allora Ministro degli Esteri, palesemente filogiapponese. Irruppero nell’abitazione, la distrussero e la incendiarono. In poche ore la notizia dell’episodio si diffuse ovunque e divenne un atto eroico, quasi una leggenda. Quella dimostrazione studentesca divenne il simbolo del forte cambiamento che stava investendo il sistema sociopolitico cinese.

Il “movimento del 4 maggio”, come venne chiamato, era legato alla Nuova Cultura portata avanti dagli intellettuali e dai riformisti radicali cinesi. In ambito letterario il movimento fu molto attivo: diversi scrittori si espressero duramente contro il Confucianesimo. Furono affrontate nuove tematiche, quali il femminismo, la sessualità, la crescita personale. In ambito politico portò sicuramente all’affermazione del Partito Comunista Cinese, che fu fondato nel 1921. Le autorità intensificarono le misure repressive, ma ormai le agitazioni studentesche si erano estese ad altre 200 università, raggiungendo un’intensità particolare nei centri in cui erano attive organizzazioni rivoluzionarie. Fu proclamato lo sciopero generale e il boicottaggio totale delle merci giapponesi. Il movimento si allargò a categorie fino ad allora non toccate dalla rivoluzione intellettuale come i mercanti e gli operai. Nel momento in cui i molti giovani arrestati del movimento 4 maggio uscirono dal carcere dopo condanne più o meno lunghe, si resero conto che ci voleva ben più di uno sciopero generale di studenti per tirare fuori il Paese dall’arretratezza, liberarlo dalla dominazione straniera e instaurare il regno “della scienza e della democrazia”. L’analisi del movimento del 4 maggio è sempre stato un problema politico e strategico, più che storiografico, per i comunisti cinesi, perché la classe intellettuale era nel fronte antimperialista, ma comunque con forti limiti sociali e politici rispetto al movimento di massa, come appuntò nei suoi scritti Mao Tse Tung in occasione del ventennio del movimento.

Settant’anni dopo, nel 1989, gli studenti sono ancora in piazza, come anche nel ’66 e nel ’67, ispirati, se non in piena continuità con il movimento del 1919. La protesta de 1989 si inserì nel quadro storico del rovesciamento dei regimi comunisti in Europa (l’Autunno delle Nazioni) ed ebbe esiti drammatici tra morti, feriti ed arrestati, il cui numero è ancora da stabilire con certezza, data la censura, l’occultamento dei dati e la disinformazione dei mass-media cinesi, dimostrando quanto sia profondamente antidemocratica la repressione del governo cinese sui diritti umani e la libertà d’espressione. Ancora oggi è tabù parlarne, le autorità militari tengono d’occhio internet, i dissidenti agli arresti domiciliari, gli scampati al massacro del 4 giugno 1989.

La protesta ebbe inizio il 15 aprile 1989 alla notizia della morte di Hu Yaobang, uomo politico popolare tra i riformisti, e proseguì per giorni, in seguito all’inasprimento delle posizioni del Partito, che ignorò le richieste degli studenti di incontrare il Primo Ministro Li Peng. Il 4 maggio 1989, data simbolica, 100.000 persone marciarono nelle strade di Pechino, chiedendo libertà d’espressione e di stampa, nonché il dialogo tra le autorità del Partito e i rappresentanti degli studenti. Molti intellettuali, professori universitari e studenti chiedevano la Quinta Modernizzazione (ideata dall’attivista per i diritti umani Wei Jingsheng), cioè progresso sociopolitico: democrazia, multipartitismo, la fine del nepotismo e la liberazione dei prigionieri politici, influenzati dalle riforme sociali e politiche attuate dall’allora presidente dell’Unione Sovietica Michail Gorbacev, che divenne il simbolo del rinnovamento.

Il 13 maggio duemila studenti si insediarono in Piazza Tien An Men e alcuni di essi iniziarono lo sciopero della fame; in migliaia si unirono alla protesta, supportati dagli abitanti di Pechino. Tuttavia si creò un profondo malcontento fra gli oppositori al regime, che vedevano nel movimento studentesco un fallimento: il numero di studenti in piazza iniziava a diminuire, mancava una chiara leadership, la piazza sembrava una baraccopoli disseminata di rifiuti e water portatili. La battaglia per la democrazia sembrava persa. A fine maggio i manifestanti innalzarono al centro della piazza una statua alta 10 metri, in polistirolo e cartapesta con un’armatura metallica, realizzata dagli studenti dell’Accademia delle Belle arti, chiamata “Dea della Democrazia”. Gli animi si rincuorarono e la protesta ricominciò. Molti dissidenti cinesi cantarono l’Internazionale e accanto alla Dea della Democrazia comparvero immagini di Mao Tse Tung e di Sun Yat-sen. In mezzo ai manifestanti scesero figure interne al comitato centrale, come Zhao Ziyang. Il timore che la rivolta studentesca degenerasse, come insegnava la storia cinese, portò i conservatori a guadagnare la maggioranza all’interno del Partito.

La protesta intanto aveva assunto un carattere vasto e popolare, arrivando a coinvolgere altre 300 città. Zhao Ziyang emerse come un politico riformista, aperto al dialogo e alla soluzione pacifica, purtroppo Deng Xiaoping, massima autorità de facto, accusava i manifestanti di essere controrivoluzionari al soldo delle potenze straniere. Il 19 maggio, per porre fine alle proteste fu promulgata la legge marziale. L’unico ad opporsi e a votare contro fu proprio Zhao Ziyang. Il giorno dopo fu ordinato all’Esercito di occupare la capitale. Zhao Ziyang tentò disperatamente di negoziare con i manifestanti ma non fu ascoltato. La sua carriera politica finì e pochi giorni dopo fu arrestato. L’Esercito incontrò una forte resistenza da parte della popolazione e per diversi giorni si astenne dall’usare la forza, ma arrivò il contrordine di sgomberare la piazza con qualunque mezzo e la notte del 3 giugno si mise in marcia verso la piazza. Non è possibile ricostruire con certezza i fatti, ma l’Esercito aprì il fuoco sui dimostranti e fu un massacro. Ci furono ingenti perdite anche tra i soldati che furono bruciati vivi nei loro mezzi corazzati, o tirati fuori dai carri armati, picchiati e ammazzati dai manifestanti.

Il governo riprese il controllo della situazione una settimana dopo l’attacco dei militari a Tien An Men. Seguì una grande epurazione politica in cui furono rimossi i funzionari che giustificarono le proteste e furono imprigionati i leader stessi della protesta. Zhao Ziyang fu confinato agli arresti domiciliari fino alla sua morte, avvenuta nel 2005. Il simbolo incisivo della protesta di Piazza Tien An Men fu un ragazzo coraggioso, chiamato il Rivoltoso Sconosciuto, che sbarrò il passaggio ai carri armati e che salì su uno di essi per parlare con i militari. L’episodio avvenne lungo l’arteria di Chang’an, vicinissima a Tien An Men, il 5 giugno, il giorno dopo la violenta repressione. Aveva una busta in una mano e la giacca nell’altra. Bloccò i militari più volte, quando questi cercarono di aggirarlo. Parlò con loro cercando di mandarli via. Nessuno sparò. La sua foto ha fatto il giro del mondo. Non si sa niente di lui, non si conosce la sua identità, se sia vivo o morto, libero o in carcere, ma è diventato il simbolo della Pace e della Libertà, anche se in Cina nessuno sembra conoscerlo.

(Nadia Loreti/com.unica, 8 maggio 2016)