Monica Mondo intervista lo scrittore torinese-triestino Claudio Magris, autore di “Non luogo a procedere (Garzanti), finalista del FiuggiStoria 2015.

Siamo di nuovo in tempo di guerra, anche se fingiamo che non ci riguardi. Qualche volta le guerre sono necessarie. 
“Oggi non siamo, come spesso si dice, nella terza guerra mondiale, ma nella quarta. La terza l’ha vinta l’Occidente e l’ha persa il mondo sovietico, la cosiddetta Guerra fredda. Che ha avuto, ricordiamoci, 45 milioni di morti fra il 1945 e l’89 o il ’91, per nostra fortuna non sulle nostre teste, ma in altri luoghi. La differenza adesso è che c’è una guerra, ma non si sa di chi e contro chi, non si sa chi è alleato e chi è nemico. All’orrore della guerra si somma il caos. La guerra poi ha questo terribile potere di seduzione, si pensa sempre che sia l’ultima. Che poi qualche volta sia necessario farla c’è poco da dire: la Seconda guerra mondiale si sarebbe potuta evitare prima, ma nel ’39 entrare in guerra contro la Germania nazista era necessario. Le democrazie potevano scegliere il disonore o la guerra, aveva ragione Churchill, scelsero il disonore, ma non per questo evitarono la guerra”. 

Adesso è di nuovo il tempo del disonore? Ci stiamo accentrando sui problemi del Pil… 
“È un altro tempo, le cose sono molto complicate. C’è da tener presente problemi geopolitici, e pure economici, sociali, che non sappiamo come affrontare tutti insieme. Abbiamo una marea di informazioni, ma ad esempio, di quel che succede veramente in Afghanistan, dove la guerra sta durando tre volte la Seconda guerra mondiale, non sappiamo nulla, chi governa, chi muore, chi controlla … Bisogna essere naturalmente ottimisti con la volontà, ma temo che tra dieci anni il mondo sarà peggiore”. 

Il passato però non è stato migliore, e Dio non ama meno questo tempo di quelli che l’hanno preceduto. 
“Nessuna nostalgia del passato, basti pensare a quante categorie di persone sono state misconosciute, offese nella storia. Il passato è stato persecutorio, pieno di pregiudizi e violenza. C’era il cabarettista, maestro di Brecht, che diceva che ‘il futuro una volta era migliore’, cioè la speranza di poter creare un futuro di pace”. 

Sei riconosciuto unanimemente come il più grande studioso di cultura mitteleuropea. Cosa significa Europa oggi? Apertura, con la paura che ti tolgano del tuo? In quest’Europa, dove aumentano i suicidi per il non senso del vivere o per le banche.
“Io sogno un momento in cui possa esistere uno Stato europeo, perché credo che dovremmo vivere le nostre identità come matrioske. Così come sono triestino o torinese e questo non è in contraddizione col mio essere italiano, altrettanto essere italiani è essere europei. Sogno uno Stato decentrato, federale, ma con leggi cogenti per tutti, esattamente come oggi le Regioni rispetto allo Stato italiano. Che hanno autonomia, competenza legislativa, però non possono fare leggi che, per esempio, dicano che le donne non possono andare a scuola. Credo, e lo dico contraddicendo quello che ho scritto tutta una vita, che sarebbe stato meglio costruire un vero Stato dove io, tu, possiamo votare per un presidente del consiglio che si chiami Rossi, Weber, Dupont, sulla base dell’idea primaria degli Stati fondato- ri, e una volta costituito questo Stato ben preciso accogliere poi gli altri Stati che vogliano liberamente aderirvi. Quando Einaudi fonda una casa editrice nel ’33, non scende in piazza a chiedere alla gente come la volete, di gialli, di romanzi rosa, di saggi storici … Ci vuole un progetto, cui si uniscano coloro che lo condividono. Bisognerebbe poi far sparire l’unanimità, che non è mai democratica, ma è sempre quella falsa, finta, dei regimi totalitari”. 

Questa Europa orientale accusata oggi di chiusure e razzismo, tu la conosci bene. 
“È vero, atteggiamenti di chiusura come il il spinato in Ungheria, o tra Slovenia e Croazia fanno impressione, tanto più a chi come me è cresciuto con un confine invalicabile a pochi chilometri da Trieste, e di là c’era la Cortina di ferro. Però credo che una ragione ci sia: questi Paesi che per lunghi anni sono stati congelati nel mondo sovietico forse sono ancora troppo presi dai propri problemi per potersi veramente interessare a quelli di questi dannati della terra che arrivano. Non è una giustificazione, ma credo che possa essere una spiegazione. Nel problema dell’immigrazione si riscontrano poi due aspetti: uno è il rifiuto razzista intollerabile e odioso, gretto, poi ce ne può essere un altro, che riguarda i numeri di questa odissea, che la rende drammatica e tragica, perché se tutti i disperati della terra, che hanno esattamente il diritto di vivere come noi, vengono qui in Europa, non c’è materialmente il posto. Proprio per questo non bisogna aggiungere ai tremendi problemi reali dei pregiudizi cretini, e nemmeno cadere nel buonismo: non ho mai capito perché, come si pensa oggi in Francia, non si dovrebbero mostrare i presepi per non offendere i musulmani e invece bisognava permettere a Charlie Hebdo, pace all’anima sua, di poter offendere tutti scrivendo sconcezze sulla Madonna”. 

Tu sei sempre stato un intellettuale di sinistra, ma poco organico alla sinistra che ha dominato la cultura italiana per cinquant’anni. Hai avuto il coraggio di prese di posizione molto nette, penso contro la legge sull’aborto.
“Come Norberto Bobbio ho scritto editoriali contro la legge sull’aborto, semplicemente in difesa della vita dell’individuo, e questo è un principio generalizzato che non dovrebbe avere a che fare con convinzioni religiose. Quanto alla supremazia presunta di una certa area culturale, ricordiamo che Mondadori, Rizzoli, Bompiani, Garzanti non erano di sinistra, nemmeno i grandi giornali, o chi comandava nelle università … C’è stata una debolezza di altra parte culturale che ha permesso di colmare gli spazi. Così come prima c’era un’egemonia crociana. Sarebbe interessante capire il perché”. 

Ti sei sempre definito un lettore appassionato delle Scritture e della teologia. Per un interesse culturale? 
“Non mi interessa la storia della teologia, mi interessa il fatto che sono i testi che ti aiutano a capire veramente la vita. Credo veramente che la teologia e l’economia siano le due scienze che prendono alla gola la vita e i suoi aspetti essenziali: il rapporto con gli altri, il coraggio e la paura di morire, l’amore, l’eros, il dolore, il piacere. Mi è sempre spiaciuto che spesso la Chiesa, che è sempre a un livello altissimo dell’esposizione del suo pensiero, sia debole nell’esposizione sui media, nella divulgazione, che invece è importantissima. Ho sempre creduto molto nei ‘bignami’: la nostra cultura, tranne quella piccolissima parte che possiamo eventualmente studiare direttamente, è fatta di cose di seconda o terza mano. È importante perciò che io abbia letto dei libri di divulgazione buoni, che mi diano, anche se in maniera superficiale, il senso delle cose. E purtroppo la Chiesa, che avrebbe un enorme potenziale liberatorio, non riesce a mutuarlo. Pochissimi sanno ad esempio che la Chiesa considera una cosa negativa avere ‘rispetti umani’, cioè essere intimiditi, preoccupati delle reazioni altrui. È un potenziale liberatorio, rispetto alle buone regole di buona borghesia che ci hanno sempre insegnato, ci hanno tramandato a scuola”.

Tu per rispetto umano dunque non rinunceresti a fare il presepe
“Mai, perché il presepe non offende nessuno, esattamente come non offende nessuno la donna con il capo coperto da un velo. C’è una legge che chiede di poter essere riconosciuti, ma vale anche se io domattina andassi in giro vestito e mascherato da clown. Come diceva Chesterton, il problema di chi non crede in Dio non è che non crede a niente, che sarebbe per certi versi anche un bene, ma che si finisce per credere a tutto”.

‘Aspettiamo sempre qualcosa’, scrivi, e nel tuo romanzo il senso dell’attesa è fortissimo, non solo di quello che succede giorno per giorno, ma di quello che potrà divenire il domani. Si aspetta per avere o per trovare? 
“Sai, mi trovo in una condizione privilegiata, non sono costretto a procurarmi affannosamente il pane per me e la mia famiglia, e dunque sono meno portato facilmente ad abbrutirmi, a castrarmi nelle domande della vita. Ma vorrei aggiungere una cosa, piccolissima, che mi ha conquistato di Papa Francesco, non certo l’unica. Una volta ho ricevuto da una casa editrice spagnola le bozze di un libro di Bergoglio, un commento agli esercizi spirituali di Sant’Ignazio da Loyola. Quello che mi ha colpito è che nella prima pagina, dove di solito ognuno aggiunge una dedica o una riga che gli piace, lui mette due frasi: una è una strofa di una canzone gitana, l’altra una citazione da un celebre canto alpino: ‘L’ultimo pezzo alle montagne, che lo ricoprano di rose e fior’.”

Tristissimo canto alpino
“Sì, però gagliardo, e questa umanità a volte passa poco, raramente è unita al messaggio cristiano. È l’amore alla vita, al gioco, ai fiori, al bicchiere di vino. L’amore di vivere. Io aspetto sempre quello. E poi, sarà per ragioni di età, il versetto che mi torna alla mente più spesso è il penultimo del Vangelo di Giovanni, quando Gesù dice a Pietro, ‘Quando eri giovane ti cingevi da solo la cintura e andavi dove volevi … ’. Come sempre, qualcosa si perde e qualcosa si guadagna, sempre attendendo”.

Monica Mondo, AVVENIRE, 23 dicembre 2015