Un confronto tra i capolavori di due maestri della luce. Un nuovo emozionante dialogo, l’ottavo, quello che dal 5 febbraio scorso e sino al 24 febbraio 2019 si tiene in Pinacoteca di Brera, a Milano. “Attorno alla Cena in Emmaus. Caravaggio incontra Rembrandt” mette a confronto due capolavori assoluti della storia dell’arte: La Cena in Emmaus di Caravaggio, una delle opere più significative del museo, e La Cena dei pellegrini di Emmaus di Rembrandt, straordinario dipinto del maestro olandese proveniente dal Musée Jacquemart-André di Parigi. 

La Cena in Emmaus torna a Milano dopo essere stata esposta alla mostra di Parigi “Caravage à Rome. Amis et ennemis, del Musée Jacquemart-André” dal 21 settembre 2018 al 28 gennaio 2019. Lo scambio tra le due cene, frutto di un accordo tra le due istituzioni, aveva visto il quadro di Rembrandt prendere temporaneamente il posto di Caravaggio, mentre ora è possibile eccezionalmente ammirarle per la prima volta insieme in sala XXVIII in un inedito e spettacolare dialogo, l’VIII, il primo dopo la ristrutturazione completa delle sale della Pinacoteca di Brera. Si tratta quindi di un raffronto mai visto, la comparazione tra due quadri di identica ispirazione nelle esecuzioni di due maestri della luce.

“Questo dialogo è un perfetto esempio del perché i musei dovrebbero prestare i loro capolavori in circostanze eccezionali”, ha dichiarato James Bradburne, direttore della Pinacoteca di Brera e della Biblioteca Braidense. “Per tre settimane, Milano avrà l’opportunità di vedere due maestri di luce uno accanto all’altro, interpreti dello stesso tema in modi diversi. La Cena di Emmaus è anche la perfetta espressione della missione di Brera – A Occhi aperti”. 

Il capolavoro di Brera, di recente riallestito in nuova collocazione con speciale illuminazione, ha come tema principale, così come l’opera di Rembrandt, una scena raccontata nei Vangeli, scelta spesso dagli artisti per illustrare concetti come il dubbio, la caducità, l’umanità di Cristo e la rivelazione inattesa resa possibile dalla fede. Due “cene” che sono accomunate dall’audacia dell’innovazione, dalla scelta di scostarsi dalle interpretazioni classiche, con una drammatizzazione data dal modo in cui colgono, come in una istantanea, le reazioni dei personaggi, oltre alla resa straordinaria dei contrasti di luce e ombra. Si tratta, per entrambi gli artisti di una sorta di irriverenza verso i modelli. In particolare Rembrandt dimostra una certa sfrontatezza giovanile: aveva appena 23 anni nel 1629, quando dipinse su un foglio di carta applicato a un piccolo pannello ligneo l’incontro di Gesù a Emmaus. E proprio il grande artista olandese tornerà molte volte negli anni a illustrare l’incontro di Cristo con i discepoli di Emmaus, soggetto che tanto aveva sollecitato l’immaginario visivo dei pittori del Cinque e Seicento, come Tiziano, Veronese, Tintoretto, Rubens e anche Caravaggio. Un’iconografia, quella del Cristo pellegrino e straniero, di antiche origini medievali e successivamente collegata al pellegrinaggio cristiano dove la strada su cui Gesù cammina diviene il simbolo del viaggio reale del pellegrino e della condizione dell’uomo, viandante in transito sulla terra verso l’eternità.

Altra invenzione geniale del quadro di Rembrandt riguarda l’impatto potente del controluce che staglia la silhouette del Cristo in ombra sullo sfondo illuminato del muro giallo. Non si tratta solo di un virtuosismo tecnico. Rembrandt intende modificare profondamente la nostra percezione della scena e inviarci un messaggio preciso: Cristo è allo stesso tempo definito ed enigmatico, rivelazione e sparizione, “presenza e promessa”, come ricorda Max Milner nel suo lucido e appassionante libro, Rembrandt a Emmaus. Un’opera, per l’artista olandese, che è la più importante degli anni di Leyda, quando in un paese protestante, dov’era proibito dipingere la figura di Gesù, il pittore trattava soggetti biblici sacri per sé stesso e per la committenza privata, non rappresentando Cristo nella vita pubblica, ma nei momenti intimi e nella sua umanità, contestando l’autorità spirituale dei prototipi che la Chiesa ha tramandato sin dall’antichità.

Le due Cene: una lettura di assonanze e differenze 
Il dipinto del Jacquemart-André attira lo sguardo dell’osservatore in virtù di un effetto di chiaroscuro di estrema intensità, anche se il chiarore che emana dal quadro è abbastanza debole: proviene da una candela nascosta dalla figura di Cristo che si staglia davanti ad essa, e la sua fioca luce è riflessa dal muro giallo, dal discepolo con la veste marrone, che sta di fronte al maestro, e da un frammento della tovaglia; tutto il resto è immerso nell’oscurità, salvo un retrocucina appena illuminato da un mozzicone di candela. Una sorta di esplosione luminosa spinge all’indietro il discepolo incredulo e attonito, il cui corpo forma con quello del Maestro una sorta di V, e il suo rapido movimento di arretramento ci fa cogliere subito il soprannaturale della scena, molto meglio che se la figura di Cristo ci apparisse come la vede il discepolo. 
Il Cristo è come decentrato a destra con il corpo inclinato di quarantacinque gradi all’indietro, e accompagna, con il suo ritrarsi, il gesto di spezzare il pane, che tiene tra le mani, in una postura che suggerisce lo sforzo di separare le porzioni e al tempo stesso la preghiera. Per quel che riguarda i personaggi, Rembrandt dipinge due reazioni differenti, il pellegrino spaventato e attonito, e l’altro che si inginocchia ammirato. Quello che interessa l’artista è il rapporto tra il soprannaturale, questa “rivelazione” e le reazioni dell’uomo. 
Sia nel dipinto di Rembrandt sia nella Cena in Emmaus di Caravaggio, è il disadorno spazio di una locanda ad accogliere i personaggi, in una vicinanza che permette di tratteggiare in dettaglio i loro atteggiamenti e i loro volti e di evidenziare il carattere drammatico dell’evento meraviglioso e inquietante che stanno vivendo con tutto l’interesse concentrato su quel che avviene intorno alla tavola dove gli oggetti sono piuttosto rari: un piatto di terracotta, un coltello, un piatto di portata, una coppa e un grosso sacco da viaggio. Max Milner nel suo libro è affascinato proprio da quel sacco, probabilmente usato nel viaggio dai pellegrini: ci vedeva l’equivalente di quello che Roland Barthes chiamava a proposito della fotografia, il punctum, cioè un particolare che cattura lo sguardo senza che sia possibile attribuirgli un significato specifico. Si apprezza meglio il carattere rivoluzionario della disposizione adottata da Rembrandt, confrontandola con quella cui si sono fermati molti suoi predecessori del XVI secolo o i suoi contemporanei. L’effetto ricercato è il contrario di quello che ha prodotto nel dipinto del Jacquemart una sbalorditiva riuscita: negli altri casi si cercava di illuminare la figura di Cristo per fare della sua epifania luminosa l’equivalente di un’apparizione, mentre qui Cristo è in ombra, la sagoma ritagliata sul fondo di luce per alludere non solo alla sua apparizione, ma alla sparizione. Per quel che riguarda Caravaggio nella Cena in Emmaus di Brera si attua un’altra concezione del chiaroscuro, che consiste nel rendere indistinte, a causa dell’ombra che le avvolge, certe parti dell’opera, delle quali emergono soltanto i frammenti che hanno più senso, a seconda della luce che li colpisce. 
Un capolavoro influenzato dalla biografia dell’artista, in fuga da Roma, dopo l’assassinio di Ranuccio Tomassoni, avvenuta il 28 maggio 1606, errante di rifugio in rifugio: una condizione esistenziale che si suppone abbia influenzato il suo modo di dipingere, con l’accentuazione del chiaroscuro e di una tecnica e un’esecuzione pittorica più rapida, quella maniera oscura su cui i contrasti ottengono un effetto d’instabilità. Il risultato è una luce vespertina, dorata, dove tutte le sfumature del bruno sono esplorate con un virtuosismo ineguagliabile. In questo caso il mancato riconoscimento del Cristo sembra frutto di una disposizione interiore dei due discepoli, non pronti a credere. Sarà la frazione del pane, l’atto che ripete il gesto dell’Ultima cena, ad aprire loro gli occhi. Con il riconoscimento del Risorto si ha come una fine improvvisa, un’interruzione della scena, con la sparizione del Salvatore.

Le opere in mostra
La Cena in Emmaus di Milano è una seconda versione, molto diversa dalla prima (ora alla National Gallery di Londra) che Caravaggio dipinse dello stesso soggetto, il momento cioè della rivelazione dell’identità di Gesù risorto ai due discepoli che tornavano da Emmaus e che avevano scambiato il Cristo per un viandante. Il dipinto si data ad un particolare e drammatico momento della vita dell’artista: la fuga da Roma, ferito, dopo l’uccisione di Ranuccio Tomassoni avvenuta il 28 maggio 1606. Il Merisi, nascosto nei feudi della famiglia Colonna a Palestrina, Paliano e poi Zagarolo, in attesa di una sentenza, secondo le fonti (Mancini 1620; Baglione 1642; Bellori 1672; Baldinucci 1681-1728) dipinse una Cena in Emmaus ed una Maddalena in estasi, presumibilmente per mettere in vendita le opere e racimolare il necessario per la successiva fuga che lo porterà a Napoli. La Cena, registrata dal 1624 nella collezione della famiglia Patrizi, fu venduta nuovamente solo nel 1939, quando l’Associazione Amici di Brera, con il contributo di due mecenati milanesi, la acquistò per la Pinacoteca. Rispetto alla versione di Londra il dipinto presenta una tavolozza cromatica più scarna e una più immediata e rapida stesura pittorica, che a tratti rivela la preparazione sottostante. La scena è immersa in un’oscurità che occupa una porzione consistente della tela e che inaugura la fase matura dell’opera del Merisi; la composizione a semicerchio delimitata dai gesti e dai manti dei discepoli concentra l’attenzione sul volto di Cristo, semi illuminato da una luce, proveniente da sinistra, che diviene simbolo e mezzo del disvelamento: il momento descritto è quello dell’addio ai discepoli, con la benedizione del pane spezzato, in rievocazione dell’Ultima cena.

Realizzata nel 1629, quando Rembrandt aveva 23 anni, La Cena dei pellegrini di Emmaus rappresenta la prima delle numerose versioni in cui l’artista si confrontò con questo tema. Un soggetto particolarmente interessante per i pittori del XVI e XVII secolo, sfidati dal brano evangelico a dare forma al mistero di un’assenza che si rivela anche presenza, epifania che affiora potentissima dentro il buio di un’eclissi fulminea. L’opera attira il nostro sguardo in virtù di un effetto di chiaroscuro di estrema intensità, benché il chiarore che emana dal quadro sia debole: proviene da una candela nascosta dalla silhouette del Cristo e la sua fioca luce è riflessa dal muro giallo, dall’uomo con la veste marrone e da un frammento della tovaglia; tutto il resto è immerso nell’oscurità, salvo un retrocucina appena illuminato da un mozzicone di candela. Una sorta di esplosione luminosa spinge all’indietro il discepolo attonito, il cui corpo forma con quello del Maestro una sorta di V, e nel suo rapido arretramento si condensa il soprannaturale della scena. Cristo appare di profilo: è come decentrato a destra, con il corpo inclinato all’indietro, e accompagna col suo ritrarsi il gesto di spezzare il pane, in una postura che suggerisce lo sforzo di separare le porzioni e allo stesso tempo la preghiera. Il suo sguardo invisibile è diretto in alto, verso l’angolo superiore sinistro della stanza dove nessun oggetto può fermarlo. Ciò che interessa all’autore è il rapporto tra la “rivelazione” e le reazioni dell’uomo, che si declinano nello sgomento del discepolo posto dall’altra parte del tavolo – in piena luce ma sospeso in un riconoscimento ancora da compiersi – e nell’adorazione espressa dall’uomo accovacciato nell’ombra di Cristo, la cui figura prolunga senza soluzione di continuità.

com.unica, 13 febbraio 2019