Un’intervista di Alain Elkann allo storico Michele Sarfatti (da La Stampa)

Michele Sarfatti è uno studioso di storia contemporanea e in particolare della storia degli ebrei nell’Italia fascista del Ventesimo secolo. Dal 2002 al 2016 è stato direttore del Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) di Milano e per molti anni ha insegnato «Storia della Shoah» all’Università di Milano. Ha appena ripubblicato l’edizione definitiva del suo libro Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione (Einaudi, Torino 2018). Il professor Sarfatti ha iniziato un ciclo di conferenze in occasione dell’ottantesimo anniversario delle Leggi razziali italiane.

Professore, quali sono i punti più importanti in discussione?
«Uno è la radicalità della legislazione anti-ebraica del regime fascista e un altro è la rilevanza che questa legislazione ha avuto nella storia nazionale italiana».

In che senso?
«Le leggi anti-ebraiche della seconda metà del 1938 avevano lo scopo di espellere gli ebrei da tutte le diverse aree della vita sociale e lavorativa, compresa la scuola. L’obiettivo era costruire una società ariana e uno stato razziale».

Ma gli ebrei in Italia non sono mai stati perseguitati con la forza?
«Fino alla metà del 1943 gli atti di violenza antiebraica erano molto rari, ma le leggi erano dure. Prevedevano il licenziamento di tutti i dipendenti pubblici, dai professori universitari ai conducenti dei tram, l’espulsione di tutti gli ebrei dall’esercito e da tutte le istituzioni culturali. La pubblicazione di nuovi libri di autori ebrei fu vietata e quelli esistenti furono progressivamente rimossi».

Gli ebrei italiani continuavano ad avere passaporti italiani?
«La loro cittadinanza non è stata revocata, secondo me era perché era più semplice mandarli via se avevano una cittadinanza, in modo che potessero essere accolti da altri Paesi. Fino all’estate del 1941 nessuno aveva in mente lo sterminio della soluzione finale, nemmeno la Germania nazista».

Quanti erano gli ebrei in Italia?
«Circa 45.000 : tre quarti di loro erano italiani e un quarto stranieri».

Quanti sono stati uccisi?
«Hanno ucciso 300 ebrei nella penisola e 7600 sono stati deportati. Di questi 6700 sono stati uccisi e 900 sono sopravvissuti. Molti di loro furono assassinati ad Auschwitz-Birkenau tra l’ottobre del 1943 e il gennaio del 1945. Un gran numero di deportati furono uccisi già all’arrivo. Quelli che sono stati tatuati con un numero di registrazione erano una minoranza. Tra questo c’era Primo Levi».

Lei ha pubblicato Gli ebrei nell’Italia di Mussolini. C’erano ebrei fascisti?
«C’erano ebrei fascisti ed ebrei antifascisti e altri che non erano né l’uno né l’altro. Tra i fascisti e gli antifascisti gli ebrei erano in percentuale maggiore rispetto agli altri italiani, perché tra gli ebrei c’è una maggior tradizione di impegno politico».

Di che cosa ha parlato a Gerusalemme alla conferenza della Hebrew University?
«Di come gli ebrei italiani siano stati progressivamente degradati: da soggetti della propria storia sono diventati gli oggetti di una storia decisa da altri».
Il razzismo e l’antisemitismo sono sempre esistiti?
«Sì. Si veda la deriva catastrofica del positivismo che alla fine del XIX secolo ha sposato la teoria della diversità tra le razze».

Il nazismo nel 1945 sembrava essere stato messo al bando ma ora pare stia tornando in Ungheria, in Austria, in Germania e in altri Paesi.
«Il caso peggiore è l’Ungheria. Sono preoccupato per la Polonia, l’Austria e anche per la Germania, ma lì è in minoranza. Credo che la nostra battaglia debba tendere a relegare l’antisemitismo e il razzismo a un’assoluta minoranza. Non sono sicuro che saranno mai sradicati. La nostra vita è una continua battaglia».

Il vento sta cambiando, anche negli Stati Uniti?
«Ci sono venti impetuosi, ma non credo che la direzione principale sia cambiata».

Ma proprio negli Usa c’è stato recentemente l’orribile assassinio degli ebrei mentre pregavano il sabato nella sinagoga di Pittsburgh.
«Doppiamente orribile perché fatto contro il popolo ebraico e il simbolo della sinagoga. Ma negli Stati Uniti ci sono state anche piccole brezze che stanno combattendo contro il fantasma che Trump sta cercando di far riapparire».

È preoccupato?
«Siamo in una fase molto delicata e complicata, ma dentro di me alla fine ho fiducia: se ci impegniamo molto, vinceremo».

Gli italiani e i francesi si sono mai ufficialmente scusati per le loro persecuzioni contro gli ebrei?
«No, ma non sono particolarmente interessato alle scuse. Ci sono ancora strade intitolate a chi ha sottoscritto il manifesto della razza. E carriere di professori universitari stroncate 80 anni fa. È più interessante lavorare su questo».

Pensa che l’istruzione sia l’arma più importante a nostra disposizione?
«La retorica è inutile. Ciò che può servire è l’educazione silenziosa che mette la Shoah nella storia europea e non al di fuori di essa. Una educazione gentile che è pronta ad ascoltare dubbi e perplessità. Non deve imporre il ricordo dello Shoah come punto di partenza».

Alain Elkann, La Stampa 9 dicembre 2018