L’egemonia del web ha seriamente compromesso il futuro della società liberale? L’articolo di Christian Rocca su La Stampa

In Divertirsi da morire, un saggio sulla televisione scritto nel 1985, quando Internet era ancora roba per scienziati, il critico americano Neil Postman diceva che dei due grandi romanzi distopici del Novecento, 1984 e Il Mondo Nuovo, il più realistico non era quello di George Orwell, come si credeva, ma quello scritto da Aldous Huxley. Per ricapitolare la tesi analogica di Postman sulla società occidentale, e aggiornarla al nostro tempo digitale, un recente articolo del Guardian ricordava che Orwell, con 1984, immaginava che la civiltà moderna sarebbe stata distrutta dalle nostre paure. 

In particolare quella di essere sorvegliati e di essere controllati psicologicamente dal famigerato Grande Fratello, mentre Huxley, con Il Mondo Nuovo, spiegava che la rovina dell’umanità sarebbe arrivata dalle cose che ci piacciono e ci divertono perché l’intrattenimento è uno strumento di controllo sociale più efficiente della coercizione. Huxley ci aveva preso più di Orwell, insomma, ma quello era ancora, soltanto, il tempo della televisione. Poi è arrivato Internet, notava il Guardian, una tecnologia che in un colpo solo ci ha regalato entrambi gli incubi immaginati dai due romanzieri inglesi, sia la sorveglianza da parte di Stati e corporation, come temeva Orwell, sia la dipendenza passiva da app e strumenti tecnologici simile agli effetti sedativi e gratificanti della droga «soma» che, secondo Huxley, possedeva tutti i vantaggi della cristianità e dell’alcol, senza averne nessuno dei difetti. 

Siamo davvero arrivati al punto in cui Internet è diventato lo strumento di demolizione della nostra civiltà? L’egemonia del web ha seriamente compromesso il futuro della società liberale? Gli argomenti catastrofisti sono sotto gli occhi di tutti e non bisogna essere luddisti o reazionari per accorgersi che l’ideologia dell’algoritmo, l’abuso e la manipolazione dei dati personali e le tecniche di persuasione digitali stiano modificando comportamenti, abitudini e tessuto sociale del mondo occidentale. La lista delle recriminazioni è lunga: il disordine creato da Wikileaks negli apparati diplomatici e di sicurezza, la diffusione delle fake news, l’ininfluenza dei dati di fatto nel dibattito pubblico, l’automazione che riduce i posti di lavoro, le ideologie politiche sostituite da algoritmi che pescano i sentiment sulla Rete. E, ancora, l’interferenza cibernetica di Mosca nei processi democratici dell’Occidente, il caso dei 50 milioni di profili Facebook finiti a insaputa degli utenti nei server di Cambridge Analytica e poi utilizzati per indirizzare il voto negli Stati Uniti e altrove, forse anche in Italia. 

Tutto vero, e molto pericoloso. Ma non si può negare che la Rete sia una delle più strabilianti innovazioni di sempre. Il culto del web è il prodotto dell’etica libertaria degli Anni Sessanta e dello spirito del capitalismo delle origini; è l’antidoto al mondo scongiurato da Orwell e Huxley; è lo strumento congegnato per sconfiggere il totalitarismo e poi sviluppatosi intorno all’idea che la libera circolazione delle informazioni fosse di per sé un fattore di progresso, di conoscenza e di partecipazione alla vita pubblica. Il problema è che ci accorgiamo soltanto adesso che con l’informazione circola anche la disinformazione e che l’accesso istantaneo a questa massa non filtrata di dati attenua la capacità dell’individuo di selezionare, di valutare, di discernere. Paradossalmente oggi siamo più ignoranti di prima, le società dispotiche sono più solide, quelle aperte più manipolabili e l’indebolimento dei corpi intermedi ha plasmato un sistema modernissimo, ma impaurito e senza punti di riferimento. 

Questa è la questione decisiva della nostra epoca e il guaio è che non si vede ancora una classe dirigente in grado di codificare le nuove consuetudini digitali, di rimettere in carreggiata il futuro e di riconciliare il progresso tecnologico con il rispetto dello Stato di diritto. Di sicuro c’è che non si può tornare indietro, perché la formula «innovazione più globalizzazione» ha creato opportunità, distribuito benessere e liberato miliardi di persone dalla povertà. Questa formula, oggi sotto accusa, è l’algoritmo dell’Occidente: avete presente le alternative? 

(Christian Rocca, La Stampa 5 aprile 2018)