Gli ebrei a Roma tra occupazione, resistenza, accoglienza e delazioni (1943-1944), a cura di Silvia Haia Antonucci e Claudio Procaccia (Roma, Viella, 2017).

Per l’ebraismo romano il 16 ottobre è una data nefasta: in quel giorno nel 1943 più di mille persone, soprattutto donne e bambini, furono strappate dalle loro case per essere deportate ad Auschwitz. Fu il primo e il più grande rastrellamento in Italia a cui ne seguirono altri lungo tutto il periodo dell’occupazione nazista. Ma chi e quante furono le vittime? Chi collaborò con gli invasori? E soprattutto cosa successe dopo quel “sabato nero” (come lo definì, in un suo celebre libro, Robert Katz)?

A rispondere a queste e ad altre analoghe domande è una lunga ricerca condotta dallo staff dell’Archivio Storico della Comunità ebraica di Roma, incaricata dalla Fondazione Museo della Shoah di Roma e pubblicata dalla casa editrice Viella.

Il volume è diviso in quattro parti: la prima e la più corposa è a cura di Amedeo Osti Guerrazzi che ricostruisce e analizza l’intero periodo persecutorio. Dopo un breve excursus sulle leggi razziali emanate dai fascisti nel 1938 e sulla “persecuzione dei diritti” da parte del regime, egli descrive nei dettagli cosa avvenne durante i nove mesi dell’occupazione nazista, soffermandosi sulle modalità di arresto o di salvataggio di molti ebrei e sui profili degli aguzzini, sia tedeschi che italiani.

Se della retata del 16 ottobre si occuparono quasi esclusivamente le SS, a tutti gli arresti successivi infatti parteciparono attivamente anche nostri concittadini. Per i primi, come spiega bene il ricercatore: “il 16 ottobre 1943 fu una specie di ‘prova generale’. Attraverso la retata, la città con tutte le sue istituzioni, fu messa alla prova. Sebbene la Questura e la parte antisemita della popolazione non avessero reagito in maniera positiva, la totale assenza di opposizione da parte della cittadinanza fece capire ai tedeschi che il ‘problema ebraico’ poteva essere risolto senza alcuna difficoltà e con la massima calma. (…).

Il disastro avvenuto a Napoli (la ribellione popolare avvenuta negli ultimi quattro giorni di settembre n.d.r.) non si era ripetuto, e quindi gli arresti degli ebrei , in seguito, si sarebbero potuti effettuare senza alcuna opposizione. Unico punto dolente, l’atteggiamento passivo, se non addirittura ostruzionistico, della Questura”.

Nei primi mesi, in effetti, la polizia, con a capo prima Peruzzi e poi Roselli, fu considerata del tutto “inaffidabile”: gli arresti furono pochi e tutti dovuti a denunce di privati cittadini. La situazione peggiorò di gran lunga, quando nel gennaio del 1944, arrivò Caruso, un ex ufficiale della Milizia, sotto il quale le catture si moltiplicarono.

In città, tuttavia, operavano anche alcuni gruppi organizzati direttamente sotto il comando nazista. Il più famigerato fu la Banda Koch, il cui capo, Pietro Koch, era, però, questore e direttore di un Reparto speciale della polizia, quindi dipendente del Ministero dell’Interno. Gli occupanti, inoltre, erano aiutati anche da singoli volenterosi: “.. in via Tasso circolavano personaggi di tutti i tipi, reclutati sia tra le vecchie ‘spie’ dell’OVRA, sia tra nuovi ed entusiasti collaboratori (…)-

Gli altri, sempre parlando per ipotesi, si presentarono spontaneamente in via Tasso convinti che i con i tedeschi si potesse guadagnare bene. Entrambi questi tipi erano sicuramente spinti dalla sete di denaro, mentre gli ‘idealisti’ come Testorio e Sabelli sembrano essere stati una minoranza”.

Tra coloro che invece salvarono gli ebrei e i partigiani, anche a rischio della loro vita e di quella dei loro familiari, ci furono numerosi civili e religiosi cattolici: tanti furono i conventi aperti ai perseguitati, alcuni pretesero un compenso altri accolsero a titolo gratuito. Innumerevoli i gesti compiuti anche dalle forze dell’ordine: a volte bastò un avviso o un far finta di non accorgersi della falsità di un documento.

Grazie ai dati minuziosamente e scientificamente raccolti e riproposti, si ha la conferma dell’ipotesi intuitiva che, così come dietro ad ogni deportazione ci fu la responsabilità diretta o l’indifferenza di uno o più italiani, dietro ad ogni persona salvata ci furono uno o più eroi, spesso rimasti anonimi.

La seconda parte è un’indagine statistica condotta da Daniele Spizzichino sulle condizioni di vita degli ebrei romani durante l’occupazione: partendo dal quadro demografico degli iscritti allaComunità capitolina, l’analisi prosegue con i dati relativi ai “sommersi” e ai “salvati”, dal 16 ottobre in poi: il genere e l’età delle vittime, la nazionalità degli autori degli arresti, i luoghi in cui gli ebrei trovarono rifugio, la tipologia dei salvatori. Interessanti anche i capitoli riguardanti l’aspetto economico e le difficili condizioni di vita di quel periodo.

La terza parte, a cura di Silvia Haia Antonucci e Claudio Procaccia, traccia un profilo dei deportati ed è introdotta da un’importante illustrazione sulle finalità e sulle modalità della ricerca, sul metodo di indagine e sulle fonti utilizzate. Eloquente il confronto tra le generalità delle vittime del 16 ottobre e quelle delle vittime delle fasi seguenti, dal quale si evince una prevalenza di donne e bambini nella retata nazista, al contrario di quanto avvenne successivamente.

La quarta e ultima parte, a cura di Silvia Haia Antonucci, è dedicata alle attività della DELASEM (Delegazione di Assistenza agli Emigrati Ebrei) e alla relativa documentazione ritrovata negli archivi della Comunità ebraica.

La ricerca dei quattro studiosi oltre ad essere un’esposizione chiara e con stile divulgativo (quindi di piacevole e avvincente lettura) e un’analisi razionale e oggettiva, ha il lodevole merito di fare chiarezza su avvenimenti che, nonostante i processi e le precedenti indagini, non sono ancora del tutto chiariti e soprattutto di restituire un nome, una storia e una dignità a molte delle vittime che il nazismo avrebbe voluto cancellare per sempre.

(Elena Lattes/Agenzia Radicale, 3 aprile 2018)

*Nella foto in alto: 16 ottobre 1943, il rastrellamento del ghetto di Roma