Un contributo del professor David Meghnagi (Università Roma Tre)

Collocare Primo Levi in una zona limite posta tra la letteratura vera e propria e l’attività di testimone, contribuisce ad occultare e rimuovere il problema della responsabilità degli scrittori di fronte ai problemi più inquietanti del nostro più recente passato. Secondo questa logica nemmeno Solgenitsin potrebbe essere considerato uno scrittore, e con lui forse nemmeno certe pagine di Dostoevskij. Non sarebbero letteratura, le pagine dei Diari di Kafka e chissà quanti altri grandi capolavori.

La poetica di Levi è una poetica del silenzio che si ferma di fronte all’indicibile. Pudore e reticenza ne sono un elemento costitutivo. Davanti all’enormità della tragedia, Levi scrittore preferisce tacere, passando la mano al saggista e allo storico, quale seppe essere. La scrittura di Levi non poteva che porsi agli antipodi di quella kafkiana. Kafka era vissuto prima dell’avvento del nazismo e la sua scrittura, nel confrontarsi con gli abissi dell’orrore, non poteva che essere evocativa, oscura, mai chiara, perché nemmeno a lui era dato percepire con chiarezza da dove sgorgava e prendeva corpo la sua parola. Kafka parlava ad una generazione cresciuta fuori dai ghetti, alla quale però le speranze evocate dagli editti di emancipazione cominciavano a rivelarsi nella loro ambiguità e vacuità. Kafka sentiva che c’erano delle mura spirituali più spesse di quelle che per secoli avevano isolato gli ebrei dal resto della popolazione, un’ostilità contro cui niente poteva la “dea ragione” rivelatasi anch’essa particolaristica e pregna di pregiudizi. Con la sua fantasia febbrile, Kafka era in grado di percepire le forze minacciose che si annidavano dietro l’apparente calma che regnava negli anni che avevano preceduto la grande guerra, poteva cogliere gli abissi della condizione ebraica, l’illusione che stava alla base della loro domanda di integrazione. Nelle sue allucinazioni poteva intravedere anche la condizione futura di una generazione che aveva sperato fosse sufficiente spogliarsi giorno dopo giorno degli attributi e delle caratteristiche che più davano all’occhio e offendevano il gusto dei gentili, sino alla perdita del senso dell’esistenza e della gioia di vivere, vivendo in anticipo nella malattia dell’anima i processi di spoliazione che i nazisti hanno in seguito organizzato su vasta scala.

A differenza di Kafka, Levi parlava e scriveva dopo la catastrofe. Egli era stato non con la fantasia, ma realmente nel regno dell’Ade. Una terribile macchina della morte era stata ideata con le tecniche più aggiornate e ad essa lavorava un’intera nazione per annientarne un’altra. Tutto ciò era avvenuto nel cuore dell’Europa, nel silenzio incredulo o complice di chi non poteva o non voleva intervenire, di chi riteneva che si doveva prima vincere la guerra contro Hitler per potersi occupare anche della salvezza degli ebrei. Visti in un’ottica storica più ampia Kafka e Levi rappresentano due grandi poli di una terribile e complessa vicenda storica, in cui la prefigurazione angosciata di un futuro incerto e di una catastrofe imminente s’incontra con la descrizione di quanto è poi realmente accaduto, oltre ogni possibile immaginazione.

David Meghnagi, Moked marzo 2018