Il leggendario ex pugile americano aveva 74 anni, e da giovedì era ricoverato in ospedale per dei problemi respiratori. Con una testimonianza in video di Gianni Minà e un ricordo di Gianpaolo Ormezzano.

L’ex pugile Muhammad Ali è morto nella notte all’età di 74 anni all’ospedale di Phoenix, in Arizona, dove era stato ricoverato giovedì 2 giugno per problemi respiratori, molto probabilmente legati alla grave malattia di cui era affetto da oltre 32 anni, il morbo di Parkinson, che progressivamente gli ha portato via il suo estro verbale e la sua leggendaria destrezza fisica. Lo ha reso noto Bob Gunnell, un portavoce della famiglia al canale televisivo americano NBC News, annunciando che la cerimonia funebre si terrà nella sua città natale di Louisville, nel Kentucky.

Muhammad Ali era nato nel 1942 ma il suo vero nome era Cassius Clay: decise di cambiarlo dopo essersi convertito all’islam nel 1964. È stato forse il pugile più famoso di tutti i tempi anche se forse non il più forte in assoluto. Si fece conoscere al grande pubblico per la prima volta alle Olimpiadi di Roma del 1960, quando vinse la medaglia d’oro nella categoria dei mediomassimi battendo in finale il polacco Zbigniew Pietrzkowski. In seguito conquistò il titolo di campione del mondo per i pesi massimi dal 1964 al 1967 e dal 1974 al 1978.

Ma Ali fu un mito anche fuori dal ring: passò alla storia il suo fermo rifiuto di combattere nella guerra in Vietnam, diventando nel tempo punto di riferimento e un’icona per i neri afroamericani e per tutti coloro che negli Stati Uniti e nel mondo si sono battuti contro le discriminazioni razziali. “Nessun vietcong mi ha mai chiamato negro”, disse, e in seguito aggiunse: “se pensassi che la guerra porterà libertà e eguaglianza a ventidue milioni di miei simili non avrebbero dovuto arruolarmi. Lo avrei fatto io domani”.

Subì la prima sconfitta nel marzo del 1971 al Madison Square Garden di New York di fronte a Joe Frazier in una sfida che passò alla storia per una borsa mai vista prima di allora (2,5 milioni di dollari per ciascuno). Riconquistò il titolo mondiale il 30 ottobre 1974 a Kinshasa (allora nello Zaire, oggi Repubblica democratica del Congo) in quello che entrò nella leggenda come “The Rumble in the Jungle” (“la rissa nella giungla”) mettendo k.o. il più giovane George Foreman all’ottavo round. Il promotore di quell’incontro Don King che mise a disposizione degli sfidanti 10 milioni di dollari.

Quindi un anno dopo il 1 ottobre del 1975, a Manila nelle Filippine, si prese la rivincita contro il suo acerrimo rivale Joe Frazier, in una delle più epiche e più cruente sfide tra pesi massimi della storia del pugilato. Che cosa fu quell’incontro lo spiegò alla fine del combattimento lo stesso Ali: “È stato quanto di più vicino alla morte”. Frazier venne fatto rimanere all’angolo dai suoi all’inizio della 15ma e ultima ripresa: era stremato, una maschera di sangue, distrutto dai diretti spietati dell’avversario che gli avevano letteralmente chiuso gli occhi. Ma anche Cassius Clay nei secondi finali del match era senza più fiato e forze, come ammise egli stesso: “Se Joe non si fosse ritirato, non so se avrei potuto continuare”. Quel match fu talmente brutale che Ferdie Pacheco, il medico di Muhammad Ali, si convinse che alla base del morbo di Parkinson che afflisse in seguito il campione del mondo ci furono i danni cerebrali riportati sul ring di Manila, in particolare per i ganci di sinistro, che Frazier rivolse al rivale. “Lui mi pensa, ogni giorno quando scende dal letto mi pensa”, ha detto molti anni dopo lo stesso Frazier per sostenere che Pacheco aveva ragione.

Il ricordo di Gianpaolo Ormezzano: Kinshasa 1974, quella notte nello spogliatoio con Muhammad Alì

L’allora Cassius Clay prima del match con Foreman raccontò poesie e parlò di apartheid

(da La Stampa del 15 gennaio 2012)

Autunno del 1974, Kinshasa ex Léopoldville, Zaire ex Congo belga: il dittatore Mobutu ha regalato ai suoi vessatissimi sudditi il match di boxe del millennio per il titolo mondiale dei massimi, tra lo sfidante Muhammad Ali che sino al 1964 del suo raptus islamico era Cassius Clay cristiano battista, e il detentore George Foreman. Ali ha 32 anni, l’altro 25. Sono entrambi neri afroamericani, ma per la gente di Mobutu Ali è il nero d’Africa che torna dai suoi fratelli, George è lo «zio Tom» d’America amico dei bianchi: vietato cambiare il copione e tifare Foreman, lo dice anche Mobutu, che ogni sera – colbacco di leopardo e scettro d’oro – impone in tivù la registrazione di un suo memorabile ma per noi bianchi misterioso intervento all’Onu sulla «authenticité» dei neri. Tanta gente assedia lo stadio dove ci sarà il match e grida «Alì boma yé», Alì uccidilo. Sarà fatto.

Sono a Kinshasa, non ho accredito ma ho Lucien, conosciuto a Parigi da dove scriveva per un giornale congolese di Mobutu. Lucien e chissacosaltro, comunque mi dice di scordarmi Lucien, lui lì è Thsimpumpu Wa Thsimpumpu («Tu sais, l’authenticité»). Lì è anche un ras, mi porta dall’aeroporto all’albergo e poi allo stadio, Ali sta dentro una stanzetta, è il tempo del massaggio.
Mugghiano fuori cento e cento giornalisti di tutto il mondo, aspettano la carità di una miniconferenza stampa del pugile dio. Non l’avranno perché Ali dedicherà troppo del suo tempo al giornalista italiano introdottogli da Angelo Dundee calabrese, Mirinda il suo nome d’origine, Angelo che è padre e fratello di Ali. Angelo che soprattutto è amico di Gianni Minà, come me e come Ali. Preavvertito dall’Italia, dice ad Ali che Gianni garantisce per me, parte il colloquio.

Ali è sdraiato su un lettino, un nero immane lo sta massaggiando. L’inglese del dio è appesantito dal «broad accent» del suo Kentucky. Durissimo, per me. Viene male chiamarlo mister Ali, ma Gianni e poi Angelo mi hanno catechizzato: guai farsi scappare un Clay, un Cassius. Ali parla, riparla, superparla, straparla. Cita versi di sue poesie, cantano la sua supremazia fisica e non solo su ogni altro essere al mondo.

Il massaggiatore deve capire, fa smorfie di assenso. Angelo, con mimica calabrese, mi guida da dietro le spalle di Ali: ascoltare tanto, chiedere poco, non fare il pignolo. Ma quando Ali, spostato da me sulla sua Roma 1960 olimpica, dice che la città antica ha avuto un re negro, oso chiedergli quale. «Annibal or Asdrubal», mi dice. Annibale era arabo cartaginese, mai fu re di Roma, e non c’è un Asdrubale nell’elenco che gli recito dalla scuoletta: Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio… Ali si erge a mezzo busto sul lettino. Angelo gesticola. Accetto Asdrubal e mi perdo l’occasione di essere messo ko da lui.

Ali vuole parlare di Foreman, per dire che non è nessuno. Io voglio parlare di Ali che quando era Cassius Clay ha buttato in un fiume la medaglia d’oro di Roma 1960 vinta per gli Usa, perché in un ristorante razzista, per bianchi, non lo servirono. Sono appena stato in Sudafrica, gli dico delle nefandezze dall’apartheid, mi risponde che l’apartheid sta dappertutto. Toh, è vero.

Non riesco a non pensare che è bellissimo. Gli dico che in Italia tutti tifano per lui, e da sempre. Che il suo rifiuto di andare a sparare ai Vietcong è stato capito, apprezzato. Mi scandisce quello che disse allora, rifiutando la leva: «Li conosco solo via tivù, loro a me non hanno mai dato sprezzantemente del negro, voi bianchi sì».

Ruffianeggio, gli dico che quella sua frase in Italia l’abbiamo mandata a memoria come un mantra, idem quella su di lui che sul ring punge come un’ape e volita come una farfalla. Gli va. Procede bene a raccontarsi. Tracima di acutezza, vanagloriosa ma forte, su uomini e cose.

Non sa che c’è stato un Carnera italiano campione del mondo dei massimi, però sa che c’è stato un Mussolini. Il massaggiatore sembra volerlo schiacciare con le manone sul lettino, ha ancora paura che mi salti addosso. Angelo, che mi chiama paisà, mi dice in brooklinese che si fa tardi: e in effetti Ali mi ha detto e dato molto di sé. «All my best to Gianni», dice il dio alzandosi e andandosene. Mi tocca adesso la masnada famelica dei colleghi.

Dico che abbiamo parlato solo di cose nostre. Tshimpumpu eccetera mi fa: «Ti porto via, andiamo a cena, mi dici qualcosa». Pagherà lui, in un ristorante dal nome italiano sulla sponda del fiume Zaire immenso, lento, caldo di vapori e marciumi. Davanti le luci vaghe, stanche di Brazzaville, capitale del Congo ex francese.

Lucien mi propone una costata di bue, controllo il prezzo, è il salario mensile di un congolese di città, se il poveraccio ha un lavoro. Dico a Thsimpumpu eccetera di scegliermi lui un piatto locale semplice, ed ecco perché nella mia vita ho mangiato anche cervello di scimmia. 

(com.unica, 4 giugno 2016)