L’addio al basket del Black Mamba tra vittorie, infortuni e show

Prima è sceso un enorme lenzuolo a rinchiudere il campo come fosse un sudario e sopra ci hanno proiettato le immaginisimbolo della sua carriera. Poi è apparso Magic Johnson e ha pronunciato il discorso di santificazione. Finalmente la partita è cominciata. I primi cinque tiri fuori bersaglio. Poi cinque centri di fila. Alla fine ne segnerà 60, tirando un numero spropositato di volte, vincendo la più coreografata delle partite. Business as usual, perché signori, per l’ultima volta, questo è Kobe Bryant.

La fanfara suonava sempre più forte da settimane. Ieri è diventato una pirotecnia: l’America si è fermata, perché era l’ultimo giorno nell’Nba di Kobe e l’evento ha assunto una tale dimensione d’emotività collettiva, da mandare in estasi i media. Così alle 7.30 della sera, lo show è andato in scena a LA: l’ultima del Black Mamba, al termine della regular season che vede i suoi Lakers eliminati, nell’epilogo di un’annata disastrosa, eppure resa leggendaria proprio dal suo farewell tour, la sequela di partite d’addio che Kobe ha giocato in tutte le arene del basket professionistico. Lui è stato meraviglioso nel sostenere la parte – in apparenza senza spendersi, senza sforzo né lacrime, con l’aria di chi si è rassegnato ad obbedire a ciò che gli comanda il corpo, dopo vent’anni di professionismo: finirla con l’agonismo, perché ci sono troppi acciacchi seri che rendono ogni sua partita una scommessa, giocata togliendosi all’ultimo momento di dosso lo scafandro di ghiaccio indispensabile a renderlo disponibile per un’altra apparizione. Intanto, dettato dal caso, è arrivato anche il colpo di teatro che ha regalato all’Nba ascolti da capogiro: nella stessa sera del goodbye di Bryant, a 500 chilometri di distanza i Golden State Warriors di Stephen Curry, ovvero la nuova dinastia regnante del basket americano, hanno infranto il record assoluto di vittorie in stagione, togliendo il primato ai Bulls di Michael Jordan. Più passaggio di testimone e investitura dell’erede di così non si poteva immaginare.

E ora, tutti a definire Kobe, dopo vent’anni di dominazione dell’Nba, in un condominio ristrettissimo, al quale, con lui, sono stati ammessi solo Shaquille O’Neal – che fu il suo compare, ma anche il suo nemico, nel momento magico dei Lakers gestiti da Phil Jackson – e poi ovviamente Lebron James, e gli ultimi arrivati, Kevin Durant e il ragazzo d’oro Stephen Curry. Più degli altri, Kobe ha la dimensione extrasportiva che ne fa un clamoroso modello di ruolo della coolness, con una valenza trasversale che non tiene neppure conto dell’appartenenza di razza. La sua storia è diversa da quella degli altri campioni ed è marcata dallo spiccato fattore di individualismo che sarà sempre il suo segno dominante. Figlio di un padre-giocatore anch’egli – anzi, più giocatore che padre – cresce in Italia, dove il genitore spende gli ultimi spiccioli di una carriera, poi studia a Philadelphia e mette subito in mostra i segni dell’eccezionalità. Per cui niente college, ma dritto a fare il professionista già a 18 anni, nei Lakers di Los Angeles, che saranno l’unica squadra della sua carriera. Ecco un altro fattore d’eccezionalità: l’appartenenza, qualcosa che di cui nel professionismo contemporaneo s’è persa traccia.

Lui è l’uomo di LA, del celebrity basketball, ma è anche il bad boy, il ragazzaccio attaccabrighe, col ghigno pronto e un’atteggiamento di superiorità sul campo che lo fa amare dai tifosi e detestare dagli avversari. Nessuno, neanche Magic Johnson o Karim Abdul Jabbar, altre glorie di LA, hanno incarnato la leadership come Kobe, capace di essere l’ago, il termometro, il giudice e il boia di questo sport, ovvero l’unità di misura su cui per anni si sono valutati tutti gli altri. A lui era consentito giocare da solista in uno sport di squadra – più che a Jordan – a lui era consentito sbagliare fin quando il capolavoro non gli riusciva – più che a Lebron James – a lui s’ispirava qualsiasi ragazzino di undici anni che cominciasse a vagare col pallone per un campetto da basket, perché trasmetteva la sensazione di una perfezione spesso sfiorata e talvolta superata. I critici dicono che è merito della dedizione maniacale con cui Bryant si è dedicato anima, corpo e mente, a questo sport. Lui dice che, se è così, non se n’è mai accorto, per un semplice motivo: il gioco gli piaceva e gli piace da morire, si divertiva in ogni secondo che lo praticava e, adesso che smette, sostiene di non rendersi conto di cosa vorrà mai dire e come sarà per lui la vita da domani. Ma a 37 anni la scelta era obbligata. Gli appassionati hanno svuotato i portafogli per essere allo Staples Center nella notte delle notti, Flea dei Red Hot Chili Peppers ha suonato l’inno prima dell’inizio della partita e poi la liturgia è cominciata, con una commozione palpabile, che diventava più densa col passare dei minuti. Lui, come sempre, ha fatto la faccia del serpente che uccide senza fare domande, e ha colpito col suo ultimo morso il cuore degli appassionati.

Lo showbiz guadagna un uomo d’affari destinato a essere ancora un numero uno, com’è successo con l’imperatore Jordan. Lo sport lo mette al passato e lo investe del luccicante mantello della leggenda. Finisce un’èra, ma naturalmente se n’è già aperta un’altra. Altri Kobe crescono. La meraviglia non finisce mai. E guardarli la sera in tv, per poi imitarli nel campetto sotto casa, resta uno dei modi migliori che i nostri figli possano trovare per riempire di sogni i loro anni migliori.

Stefano Pistolini/Il Foglio 15 aprile 2016