Angelo Panebianco in questo editoriale ripreso dal Corriere della Sera auspica il ritorno della leadership americana in funzione anti-Isis. Necessaria anche nell’interesse dell’Europa, proprio nel momento in tanti sembrano lasciarsi incantare dalle sirene di Putin, mostrandosi disponibili a legare le proprie sorti a quelle di un «vero» uomo forte.

Previsioni no ma un’ipotesi fondata su qualche dato di fatto si può avanzare: l’offensiva finale contro il Califfato, plausibilmente, non comincerà prima della metà del 2017. Nel 2016 ci saranno le elezioni presidenziali statunitensi. Il nuovo presidente si insedierà all’inizio del 2017. A lui o a lei occorrerà un po’ di tempo per elaborare una strategia utile allo scopo di venire a capo del problema nei suoi aspetti militari e politici.

Obama, figlio di una stagione in cui l’opinione pubblica americana era stanca di guerre (accadde anche negli anni Settanta: Jimmy Carter fu il presidente di un Paese estenuato dopo il Vietnam), non farà nulla di nuovo, non restituirà all’America, men che mai nelle faccende mediorientali, il ruolo dello Stato guida, della potenza che esercita una forte leadership sull’insieme degli alleati.

A meno di eventi così sconvolgenti da far cambiare idea a Obama, perché ciò accada bisognerà aspettare un nuovo presidente, democratico o repubblicano. Fino ad allora vivremo in mezzo alle contraddizioni di coalizioni di guerra più nominali che reali, prive del collante che può fornire solo uno Stato egemone e deciso a esercitare l’egemonia. Inoltre, non potendo distruggere subito la principale fonte dell’infezione, continueremo ancora a lungo a fronteggiare un elevato rischio terrorismo. Va così inquadrato anche lo scontro in atto fra il russo Putin e il turco Erdogan.

Putin non sta soltanto attaccando un nemico del suo alleato Assad di Siria (l’aereo russo abbattuto era in azione contro i ribelli anti Assad filoturchi). Sta anche sferrando colpi alla già precaria posizione americana. Mettendo a nudo il doppiogioco della Turchia (membro della Nato) nel rapporto col Califfato, Putin ottiene il risultato di accrescere le difficoltà degli americani e di rendere ancor più ardua la formazione di una vera coalizione a guida occidentale contro lo Stato Islamico. È in questo quadro strategico che va anche collocata la polemica russa contro il Montenegro nella Nato: serve ad alzare il prezzo nei negoziati con gli occidentali sui futuri assetti mediorientali (e far distogliere l’attenzione, il che non guasta, dalle responsabilità russe in Ucraina).

Il presidente francese Hollande spera di realizzare («nodo» Assad permettendo) una cooperazione stretta con la Russia contro lo Stato Islamico. E sono molti i leader, Matteo Renzi compreso, che pensano che senza la Russia non si potrà fare nulla. Berlusconi (Corriere del 2 dicembre) auspica un’ampia coalizione Onu guidata dalle principali potenze, Usa e Russia in primo luogo. Ma se è giusto sostenere che con la Russia occorra comunque cooperare in quel conflitto, è un’illusione pensare che ciò possa essere fatto senza un rilancio della leadership americana.

Una Russia aggregata a una coalizione guidata, militarmente e politicamente, dagli americani è una cosa. Una Russia che non deve fare i conti con una forte America è un’altra cosa: perché sarebbe libera di fare soltanto i propri interessi, non necessariamente coincidenti con i nostri. Ha ragione l’ex ministro degli esteri tedesco Joschka Fisher (Corriere del 29 novembre): per tentare di liberarci dello Stato Islamico, oggi rischiamo di doverci affidare a un blocco sciita (Iran, Siria di Assad, hezbollah libanesi) sotto la guida russa.

Sarebbe politicamente una catastrofe — si pensi a come reagirebbero i sunniti— se Assad assurgesse al ruolo di «liberatore» dei territori oggi in mano al Califfato. La Russia va bene, insomma, ma non con un’America debole. Oltre a imprimere una forza che oggi manca alla coalizione anti Stato Islamico rendendo possibile una seria azione di contrasto all’estremismo, il ritorno della leadership americana servirebbe in molti modi agli europei. Servirebbe, per esempio, a distogliere tanti dalla cattiva idea secondo cui, poiché l’America latita, tanto vale legare le proprie sorti a quelle di un «vero» uomo forte.

Il fascino che Putin esercita su molti europei è pericoloso: fa dimenticare che la Russia è un regime illiberale con cui dobbiamo certamente collaborare ma senza abbassare la guardia, senza dimenticare l’abisso, culturale e istituzionale, che separa quella democrazia autoritaria dalle nostre democrazie liberali. Nonché le insidie che sono sempre presenti nei rapporti con i regimi autoritari. Servirebbe anche a ridare ragioni e motivazioni a una comunità atlantica che non è stata solo un’alleanza di pura convenienza dei tempi della Guerra fredda.

Nel lontano 1958, un grande storico liberale, Vittorio de Capraris, scrisse un libro suggestivo e quasi dimenticato, Storia di un’alleanza: la comunità atlantica: per lui, era il punto di arrivo di un percorso secolare, il momento di coagulo di un blocco di Paesi unito dalla consapevolezza di rappresentare una «comunità di destino», fondata sulla condivisione di valori e dotata degli istituti necessari alla vita e allo sviluppo di società libere. Un’America che rinuncia alla leadership atlantica, come si è visto, è un’America che rinuncia alla leadership tout court. Ma anche l’Europa, come testimoniano questi anni, diventa un continente allo sbando.

Come De Capraris aveva capito fin dagli anni Cinquanta, non c’è nessuna integrazione europea possibile se non all’interno di un rapporto di partnership con gli Stati Uniti. Entrata in crisi la seconda, difatti, è entrata in crisi anche la prima. Talvolta, nel momento di maggior pericolo, di fronte a gravissime minacce esistenziali, uno scatto inaspettato non solo allontana il pericolo ma apre nuovi scenari. Oggi il mondo occidentale è certamente in pericolo. È difficile che possa superarlo se non ritroverà le smarrite ragioni di un’antica solidarietà.

(Angelo Panebianco, Corriere della Sera, 4 dicembre 2015)