Un ricordo di Alberto Moravia a 20 anni dalla morte

Qualche giorno fa Antonio Debenedetti, ricordandomi che è passato esattamente un quarto di secolo dalla morte di Alberto Moravia, scrittore di cui Antonio non dimentica mai l’importanza della nostra narrativa novecentesca, ha aggiunto un’osservazione. Di solito si dice che gli ebrei a metà, di padre o di madre cattolici, si sentono ebrei una volta e mezzo, perché essendo divisi in due guardano a se stessi anche dall’esterno: cosa che per esempio si notava in Elsa Morante, Franco Fortini, Natalia Ginzburg. Invece Moravia sembra che neppure si accorgesse della propria metà ebraica. Non la vedeva, non voleva vederla.

A pensarci è proprio così. In Moravia non si trova traccia di autocoscienza ebraica. Come si spiega? La prima risposta potrebbe essere che Moravia ha voluto vivere di estroversioni, di energiche e brusche rimozioni. Una qualche forma di autocoscienza ebraica lo avrebbe disturbato. Lo avrebbe fatto sentire vulnerabile e malato, mentre lui respingeva ogni malattia e morbosità. Non avrebbe mai accettato di rigirarsi nella testa un problema per il quale non c’era soluzione, un problema sterile che poteva procurargli solo inutili rovelli, paure, perdite di tempo e perfino qualche autocompiacimento, qualche morbosa autocommiserazione.

Superata la tubercolosi ossea che lo aveva colpito da ragazzo, scampato alle persecuzioni antisemite, nato a nuova vita con la fine di una società opprimente come quella fascista, dopo il 1945 Moravia aveva deciso di affrontare il mondo, di vivere nel mondo, di lavorare e di essere socialmente presente. Di essere (nella misura in cui può esserlo uno scrittore) un individuo sano e normale.

Insomma, l’ovvia parola “rimozione” forse può davvero spiegare tutto. Del resto anche il modo di scrivere di Moravia, il suo stile letterario, è “rimozionale”. Così duro, diretto, neutro e incolore, privo di sfumature, antipoetico: non sensitivo ma razionale, sempre piuttosto legnoso e un po’ meccanico, ma così efficace e adatto a far girare le ruote di una narrazione obiettiva, che non torna e non gira su se stessa ma procede ineluttabile da una serie di precedenti a una serie di conseguenze.

Eppure a me sembra che ci sia stato almeno un momento in cui la rimozione ha ceduto. Si tratta di poco più di una pagina, una delle più belle che Moravia abbia scritto, quella in cui ritrae Giacomo Debenedetti. Fu pubblicata in un volumetto uscito dal Saggiatore nel 1968 a cura di Cesare Garboli, nel quale sono raccolti una serie di ricordi del critico a distanza di un anno dalla sua morte.

Moravia comincia quasi con cautela parlando del fascino, o meglio dello “charme” di Giacomo Debenedetti: “Uno charme o fascino strano e al tempo stesso raffinato e familiare, esitante e sicurissimo, cortese e autoritario, distaccato e patetico”. Moravia ha di fronte un eccezionale prototipo di ebreo, intellettuale e scrittore. Avverte uno “strano” magnetismo che non riesce a spiegarsi e non sa, non vuole individuare come ebraico. La rimozione cede al fascino, eppure non smette di agire. Moravia ha davanti a sé l’anima ebraica nella sua versione più sensibile e sofisticata: la riconosce e non se ne accorge: “Questo charme o fascino in seguito è sempre stato un poco, fra me e lui, come un amabile diaframma che in certo modo quasi automatico sostituiva la contemplazione alla comunicazione”.

È il lato voyeuristico del narratore che qui entra in funzione. Moravia guarda Debenedetti, lo contempla. Vede perfettamente il personaggio ma non comunica con lui. Lo sente e lo teme. Lo ama e se ne ritrae come se avvertisse in lui un modo di essere e di vivere che oscuramente gli annuncia minacce. Essere ebrei, esserlo con suprema, perfetta, disarmata eleganza e consapevolezza, è per Moravia una minaccia al proprio “rimozionale”, brusco e un po’ fobico modo di vivere.

Moravia era, come è noto, uno scrittore inflessibilmente metodico e produttivo. Scriveva tutte le mattine dalle otto all’una. Sedeva alla scrivania vestito con camicia e cravatta e mentre batteva a macchina non evitava neppure di rispondere al telefono. Le sue paure erano efficacemente neutralizzate dalla disciplina borghese del produrre e del non sottrarsi alla vita sociale. Con Debenedetti, ebreo che viceversa non smetteva un attimo di percepire instabilità e minacce, che rapporto poteva avere Moravia? Eppure un rapporto, più contemplativo che comunicativo, c’era: “Mi sono spesso domandato il motivo di questo insolito rapporto. E sono venuto alla conclusione che quello che mi seduceva tanto in lui era la qualità molto moderna e attuale della sua civiltà. Essere civili non è poi tanto difficile, basta comportarsi secondo certe norme, ispirarsi a certi modelli. Ma essere civili con trepidazione, con inquietudine, con angoscia, questo è assai insolito. Era come se, nel momento stesso che mi faceva sentire la civiltà nel tono della sua voce, nell’espressione del suo volto, nel gesto delle sue mani, egli mi avesse anche avvertito della fragilità e incertezza della situazione in cui si trovava e si trova tuttora l’uomo civile ai tempi nostri”.

Ho letto molti romanzi e racconti di Moravia e non ricordo nessun personaggio così vivo, delicato, sofisticato e complesso come questo. Un personaggio del resto che Moravia non ha inventato, ha semplicemente descritto dal vero e che gli si è imposto. Mi sono spesso detto che Moravia solo in apparenza è stato un narratore realista. Temeva la realtà, al punto che vedeva più la sua ombra e la propria paura che la realtà in se stessa. La realtà che Moravia racconta è il prodotto del suo stile brusco, spiccio, metodico e rimozionale. Ma per una volta, di fronte a Giacomo Debenedetti, ha visto realmente, in carne e ossa, vibrante e straziante, l’intellettuale ebreo e proustiano che lui aveva rifiutato di essere.

(Alfonso Berardinelli – Il Foglio 25 settembre 2015)