Sono sempre sorpreso, quando mi trovo in una grande città italiana, dagli echi che mi giungono di storie lontane. Cerco allora di aguzzare le orecchie e, immancabilmente, colgo squarci di umanità che non avrei mai immaginato solo qualche attimo prima. Chi ha detto che nelle città popolose si prova la solitudine? Non è vero! Quante storie puoi immaginare dietro il volto di un operaio o di un impiegato che al mattino sta bevendo un cappuccino, o dietro il sorriso della barista.

La grande città italiana è sempre un crocevia di destini. Se ascolti i discorsi sulla panchina mentre aspetti l’autobus, ti accorgi che ciascuno ha da insegnarti qualcosa, e puoi scoprire che ci sono molte persone che hanno sofferto più di te e che in quel momento forse ti stavano aspettando per fartene parte. C’è un’umanità che vorresti abbracciare, che incontri sull’autobus, donne anziane che hanno appena iniziato a raccontarti la loro vita e devono scendere alla fermata successiva. Le insegui con lo sguardo, e sei certo, in quel momento, che le rivedrai, che non può essere il caso che te le ha fatte incontrare.

Non molti giorni fa mi trovavo in una di quelle nostre affascinanti città del Nord «piene di vita, piene di luce, con tanta gente che lavora, con tanta gente che produce», come cantava molti anni fa Giorgio Gaber, e una signora, sull’autobus, guardando fuori, mi ha fatto notare che molte persone avevano in mano dei mazzetti di rose. «Ah! – ha esclamato – oggi è la festa di Santa Rita!». Io, per la verità, non me ne ero ricordato. «Io – ha proseguito la donna – non sono molto di chiesa (ha detto proprio così), però questo me lo sono ricordato». Ho avuto l’impressione che mi stesse chiedendo di parlarle di Santa Rita, e io l’ho fatto. Alla fine mi ha detto che avrebbe letto la vita della santa. Davvero curioso – ho pensato scendendo dall’autobus – questa donna ha ricordato a me che era la festa di Santa Rita affinché io gliene parlassi.

Mi è capitato poi, sempre sull’autobus, di ascoltare una donna che pareva d’altri tempi, e che si rivolgeva ad un vicino di posto dicendogli, come in un romanzo di Carlo Cassola o di Vasco Pratolini: «Io non voglio più sentir parlare di guerre. Mia nonna, durante la prima guerra mondiale, ha visto morire una sua sorella, che a causa della situazione di emergenza non ha potuto curarsi di una malattia che aveva fin da piccola. Poi, nell’ultima guerra, non ha visto tornare un suo figlio dalla Russia. Sicché io di guerre non voglio più sentir parlare». Raccontava come se quegli avvenimenti fossero recenti. Eppure avrà avuto poco più di sessant’anni, e aveva tutta l’aria di una persona equilibrata. L’ho osservata: era come se si fosse identificata nella nonna, che, di certo, doveva amare molto. Queste nonne…- ho pensato- quando sono in vita ti fanno da mamme, e quando sono morte ti accompagnano dappertutto, come sorelle più grandi. E, in fondo, che cos’è il tempo e lo spazio? Solo una dilatazione dell’essere: niente di più. E che cos’è la letteratura? La cronaca di fatti che devono ancora accadere.

In due giorni, mi pare di aver riletto più di un romanzo del Novecento, e molti altri mi sono stati suggeriti. E poi si dice che bisognerebbe rifugiarsi in una grotta per parlare con Dio… Bisogna camminare lungo le strade delle nostre stupende città. Quanti Cristi si incrociano.


IL SORRISO E L’ETERNITÀ

Quante volte la vita ci fa incrociare,

per una sola volta,

nei posti più impensati

(sull’autobus, in  treno, in ascensore…),

uno sguardo, un sorriso,

un “grazie” o un “prego”

regalati così, per il solo gusto

di far piacere all’altro :

anime che per un attimo si sfiorano,

che vorrebbero abbracciarsi,

bagliori inaspettati di umanità

destinati a riaccendersi altrove…

Quando saremo sull’altra sponda,

scopriremo che dietro ogni sorriso

c’era una promessa di eternità,

e che ogni lacrima versata,

qualunque ne sia stato il motivo,

è un giacimento di misericordia.

Davvero un sorriso può aprire

la porta del Paradiso.    
Giuseppe Lalli, com.unica 14 giugno 2019