Il report del think tank Freedom House: Cina e Iran vengono citati come i luoghi dove c’è minore libertà

Molti paesi hanno utilizzato la pandemia come scusa per ridurre ulteriormente la libertà sul web. In altri termini per espandere la sorveglianza online e la raccolta di dati, censurare i discorsi critici e costruire nuovi sistemi tecnologici di controllo sociale. È quel che si può leggere nel report del think tank Freedom House che coinvolge 65 nazioni, corrispondenti all’87% degli utilizzatori globali. Nello studio Cina e Iran vengono citati come i luoghi dove c’è minore libertà, mentre Islanda ed Estonia sono ai primi posti della classifica.

Lo sviluppo incontrollato dell’intelligenza artificiale (AI) e della sorveglianza biometrica nell’affrontare la crisi della salute pubblica ha creato nuovi rischi per i diritti umani. App per smartphone per la tracciabilità dei contatti o la conformità alla quarantena sono state introdotte in 54 dei 65 paesi valutati in questo rapporto. Pochi paesi dispongono di meccanismi efficaci per proteggere i dati personali da pratiche abusive da parte dello Stato o del settore privato.

 

“La pandemia sta accelerando la dipendenza della società dalle tecnologie digitali in un momento in cui Internet sta diventando sempre meno libero”, ha affermato Michael J. Abramowitz, presidente di Freedom House. “Senza adeguate garanzie per la privacy e lo stato di diritto, queste tecnologie possono essere facilmente adottate per la repressione politica”.

“La storia ha dimostrato che le tecnologie e le leggi attuate durante una crisi tendono a restare in circolazione”, ha aggiunto Adrian Shahbaz, direttore per la tecnologia e la democrazia e coautore del rapporto. “Come per l’11 settembre, guarderemo al COVID-19 come al momento in cui i governi avranno acquisito nuovi poteri per controllare le loro popolazioni”.

I leader politici stanno anche usando la pandemia come pretesto per censurare notizie sfavorevoli, arrestare critici e gruppi etnici e religiosi. In almeno 45 paesi, attivisti, giornalisti e altri membri del pubblico sono stati arrestati o accusati di reati penali per discorsi online legati alla pandemia. I governi di almeno 28 paesi hanno censurato siti web e post sui social media per sopprimere statistiche sanitarie sfavorevoli, accuse di corruzione e altri contenuti relativi a COVID-19.

Nessun governo ha adottato un approccio più aggressivo alla crisi della salute pubblica di quello cinese, che si è rivelato essere il peggior violatore della libertà di Internet al mondo per il sesto anno consecutivo. Le autorità cinesi hanno combinato strumenti a bassa e alta tecnologia non solo per gestire l’esplosione del coronavirus, ma anche per dissuadere gli utenti di Internet dal condividere informazioni da fonti indipendenti e sfidare la narrativa ufficiale. La pandemia sta normalizzando il tipo di autoritarismo digitale che il Partito Comunista Cinese ha cercato a lungo di diffondere.

I recenti avvenimenti a Hong Kong illustrano in modo spaventoso i dettagli delle implicazioni di un maggiore controllo statale sullo spazio civico online. La leadership di Pechino ha imposto una draconiana legge sulla sicurezza nazionale alla regione autonoma, prescrivendo dure punizioni per i reati di opinione che comprendono qualsiasi espressione di solidarietà con i manifestanti prodemocratici. Anche la Russia di Putin sembra essersi ispirata a questo modello: proprio di recente le autorità hanno approvato una legislazione per isolare il paese dall’Internet internazionale durante le emergenze nazionali mentre il governo iraniano ha analogamente interrotto le connessioni per nascondere la risposta violenta della polizia alle proteste di massa alla fine del 2019.

L’Italia è considerata tra i paesi in cui Internet è più libero e occupa il settimo posto. Sono almeno 20 i paesi, afferma il rapporto che si basa su 21 parametri, dall’accesso al web alla censura dei contenuti, in cui la pandemia è stata utilizzata per introdurre nuove restrizioni alla libertà di parola e arrestare chi aveva espresso critiche online.

Fra gli esempi negativi sono citati anche gli Usa, che rimangono comunque al settimo posto, con lo stesso punteggio dell’Italia ma con un trend in calo, in virtù di una sempre maggiore sorveglianza dei social, come ad esempio avvenuto in occasione delle proteste del movimento Black Lives Matter.

“Nell’era del Covid-19 la connettività non è un lusso ma una necessità – sottolineano gli autori del rapporto. Praticamente tutte le attività, dal commercio all’educazione alla salute, sembrano essersi spostate online. Stati e entità non statali in molti paesi stanno sfruttando le opportunità create dalla pandemia per imporre narrative online, censurare le voci critiche e costruire nuovi sistemi tecnologici di controllo sociale”.

Secondo Freedom House la risposta migliore è quella di affidare un ruolo maggiore alla società civile globale, con l’adozione di nuovi sistemi di governance di Internet e attraverso piattaforme che sostengano i principi democratici di rappresentanza e partecipazione popolare. Gli attuali meccanismi di autoregolamentazione incontrano infatti serie difficoltà quando l’interesse pubblico contrasta con l’interesse personale dell’industria tecnologica.

com.unica, 16 ottobre 2020