L’analisi critica di un giurista sul decreto-legge n. 34/2020 pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 19 maggio.

Ebbene sì, abbiamo trovato la pistola fumante: con la fine del lockdown è di nuovo operativo l’UCAS (Ufficio Complicazione Affari Semplici). Anzi, l’UCAS non ha mai chiuso (caso mai ha lavorato in smart-working) e ora viene addirittura potenziato con il decreto-legge n. 34/2020 (cd. “rilancio”), pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 19 maggio.

Il nome “rilancio” potrebbe essere casuale, estratto a sorte da un sacchetto contenente termini suggestivi, oppure nascondere un messaggio subliminale. Il “rilancio” di un Pase che già prima dell’emergenza sanitaria era fermo (se non tecnicamente in recessione) potrebbe suggerire l’idea della scelta netta e decisa di liberarsi dei lacci e lacciuoli che finora l’avevano tenuto legato, oppure della ripetizione del lancio (ri-lancio) di misure economiche già in essere. Come dimostreremo tra poco, è (purtroppo) vera la seconda affermazione, con il risultato di reiterare (per di più all’ennesima potenza) i medesimi vizi inveterati che finora ci affliggevano. Insomma, una omeopatia fondata non sul principio della piccola dose curativa, bensì dell’avvelenamento massivo.

Da anni l’Italia si segnalava nel panorama europeo quale Paese che nella fase generale di crescita avanzava di meno e in periodo di crisi accusava più degli altri il colpo. Il problema numero uno dell’economia italiana ante pandemia era la bassa crescita, correlata ad una produttività sostanzialmente ferma da anni, a causa di una molteplicità di fattori ancora non rimossi. Le cause della progressiva ingravescenza del nostro svantaggio competitivo sono ben spiegabili in analogia con il “modello a diamante” di Porter: l’enorme debito pubblico, l’allocazione di risorse in eccesso verso misure di assistenzialismo in rapporto a quelle per investimenti produttivi, l’eccessivo peso della burocrazia, una legislazione ipertrofica e caotica, diffusa cultura anti imprenditoriale e anti meritocratica in generale, insufficiente investimento in ricerca, innovazione e istruzione, e il malfunzionamento del sistema giudiziario, elevato livello di tassazione (con ampia evasione fiscale). E l’elenco potrebbe continuare.

Non a caso i nodi sono venuti al pettine proprio in questo momento di crisi, in cui una ampia parte del mondo produttivo è stato costretto all’improvviso a sospendere la propria attività per oltre due mesi. In questo periodo, questi settori hanno avuto particolarmente bisogno del sostegno proattivo della pubblica amministrazione, ma sono rimasti ancora una volta delusi (per usare un eufemismo). Anzi, a fronte del permanere dei gravosissimi obblighi fiscali (solo posticipati, eccetto l’IRAP) non hanno ricevuto da parte della pubblica amministrazione l’assistenza necessaria per poter ricevere neppure le gocce del fiume di denaro messo a disposizione dalla UE e dallo Stato italiano tramite ulteriore indebitamento pubblico.

Nel suo complesso – ma con alcune lodevoli eccezioni, tra cui spicca il settore sanitario – il nostro sistema amministrativo si è disvelato in tutta la sua inefficienza ed inefficacia, tranne che nel non arrecare troppo disturbo in chi ci lavora ed è già super garantito (anche qui con le solite eccezioni, nella sanità e nei servizi che non sono stati interrotti). Le amministrazioni interessate ancora una volta non hanno saputo tradurre in azioni concrete la dichiarata volontà di elargire sovvenzioni a pioggia a privati e imprese. Sono stati posticipati con decreto legge tutti i termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi e per o svolgimento dei processi, ma anche in regime di smart working l’unico termine puntualmente rispettato è stato quello del pagamento degli stipendi a fine mese. Dunque, viene da chiedersi se l’amministrazione pubblica sia ancillare rispetto ai servizi da rendere per assicurare il soddisfacimento dei diritti di privati e imprese (peraltro sottoposti ad un livello di pressione fiscale elevatissimo) oppure sia considerata uno stipendificio. Per citare solo un esempio, tutta la disciplina e la prassi del sistema scolastico servono ad assicurare un’istruzione di qualità agli studenti oppure un posto di lavoro agli adulti? E qualcuno si è mai davvero preoccupato di far corrispondere (in aumento e in decremento) il compenso dei dirigenti pubblici ai risultati raggiunti? È appena il caso di aggiungere che siffatto modello fuorviato di amministrazione deprime e mortifica gli stessi dipendenti pubblici competenti e laboriosi, frustrati da un livellamento retributivo e di carriera formalmente e sostanzialmente anti meritocratico.

Va invece ricordato con forza che l’amministrazione pubblica esiste e si giustifica in funzione delle utilità ai cittadini (difesa, sicurezza, sanità e altri servizi pubblici). I cittadini pagano per ottenere dei servizi pubblici, che devono essere erogati secondo standard di qualità prefissati e in caso di disservizio deve conseguire il diritto al pagamento di un indennizzo automatico e forfettario sullo schema della responsabilità civile per inadempimento. Ma questo sistema, nato nel 1994 attraverso l’obbligo di predisporre carte dei servizi, dopo 26 anni non viene di fatto mai applicato perché o gli standard di qualità sono troppo generici (con la conseguenza che non possono essere misurati e dunque non sono vincolanti) o perché manca l’indicazione dell’indennizzo. Così anche la Carta dei servizi dell’Inps, che beffardamente esordisce al primo rigo ricordando che “è oramai da diversi anni lungo la strada della semplificazione e della trasparenza e del miglioramento dei servizi ai cittadini e alle aziende”. Il concetto di qualità implica quello di miglioramento continuo, attraverso la fissazione di obiettivi e la verifica del loro raggiungimento (o dell’analisi del loro eventuale non raggiungimento con contestuale predisposizione di misure correttive). La Carte dei servizi dell’Inps è del 2007, gli standard di qualità sono fermi al 2012 e non si parla affatto di indennizzo. Cosa ci dovremmo attendere da questa impostazione, se non disfunzioni?

Eh già, perché proprio l’Inps si è rivelata ancora una volta la caporetto dell’amministrazione pubblica italiana. A distanza di due mesi dall’avvio delle procedure di erogazione dei bonus da 600 euro previsti dal Governo, ben pochi sono stati quelli erogati. E’ dappertutto così? Niente affatto. Ad esempio, in Germania il 9 di aprile gli imprenditori avevano già ricevuto sul loro conto corrente 9.000 euro a “fondo perduto”. La differenza con quanto avvenuto in Italia sta sia nell’entità delle sovvenzioni previste che nella effettività dell’erogazione. Solo in questo, nient’altro.

A fronte di questo, per il passaggio alla cd. “fase 2”, da caratterizzarsi per il rilancio delle attività produttive, il Governo ha partorito un decreto legge che propone come rimedio la prosecuzione delle medesime azioni con il medesimo approccio, vale a dire assistenzialismo e slogan politici.

Questa è la dolorosissima sintesi del contento del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34. Già il suo iter è esplicativo dell’andazzo: annunciato a marzo quale contenitore di norme che a partire dal mese di aprile diano stabilità alle misure tampone previste all’inizio della pandemia, si trascina fino al 13 maggio, quando viene pomposamente annunciato come prontissimo nel corso di una delle ineffabili conferenze stampa del Premier, ma in realtà ancora in attesa della bollinatura da parte della Regioneria Generale dello Stato (non formale, vista l’entità della manovra) e della sottoscrizione del Presidente della Repubblica. Giungerà lento pede in gazzetta ufficiale solo 6 giorni dopo. Ma ad esso non si addice il motto di Lorenzo il Magnifico (festina lente) perché il tempo trascorso non pare essere stato impiegato per individuare le soluzioni più ragionevoli al problemi sul tappeto, bensì solo per imbarcare la congerie di istanze settoriali che inevitabilmente vengono sollevate da tutte le categorie: il decreto legge è dunque giunto in grave ritardo ed ha un contenuto assolutamente insoddisfacente perché si limita a allargare la platea degli assistiti (peraltro “dimenticandosi” dei liberi professionisti) senza alcuna seria misura per la ripresa economica. Immagina cioè che sia possibile l’impossibile, cioè che tendenzialmente tutti gli italiani possano (o forse debbano) vivere all’infinito di sussidi pubblici.

Il decreto legge, è bene dirlo chiaramente, contiene un’unica disposizione idonea a superare i problemi della crisi produttiva (l’abolizione della rata Irap) e per il resto è in buona sostanza un interminabile elenco di bonus e sussidi variamente determinati elargiti a pioggia ad una congerie di categorie, con la previsione della nomina di un commissario straordinario per la realizzazione degli interventi sull’autostrada abruzzese

Insomma, a fronte di una pubblica amministrazione rivelatasi in queste settimane gravemente inefficace ed inefficiente anche nel distribuire bonus e sovvenzioni di ogni genere a cittadini e imprese in difficoltà per la chiusura improvvisa delle loro attività, si prevedono ulteriori provvidenze senza sostanzialmente porre mano all’esercizio concreto dell’attività amministrativa che deve a ciò provvedere e senza rimuovere le cause (e le persone) responsabili del disservizio.

A fronte di tutte le inefficienze di questi mesi da parte della PA nel tradurre in erogazioni economiche concrete le previsioni legislative di sussidi, il Governo chiede al sistema bancario un “atto di amore” (sic!) e anziché pungolare la PA con gli strumenti (anche gerarchici) che sono propri di chi è a capo del potere esecutivo, emana nuovamente disposizioni di legge sull’autocertificazione che sono in buona parte già in vigore dal 1968 (ma finora rimaste in parte disattese nonostante le decine di riedizioni legislative) e aggiunge nuove sanzioni per i cittadini che abusino delle dichiarazioni sostitutive. Questo, in estrema sintesi, il contenuto dell’art. 264 del decreto legge “rilancio”.

Ora, la semplificazione dovrebbe cominciare già al momento della redazione delle regole. Infatti è patrimonio di conoscenza comune che l’eccessiva produzione normativa e gli oneri burocratici allontanano la pubblica amministrazione dai cittadini e dalle imprese e ne riducono le potenzialità di intervento come fattore di sviluppo e di efficienza del sistema. Altrimenti detto, la pubblica amministrazione finisce per rivelarsi l’esatto opposto di ciò per cui storicamente è stata istituita e per il quale si pagano le tasse. Infatti, un cattivo uso della regolazione e un sistema amministrativo inefficiente rappresentano condizioni di contesto che deprimono la crescita e la competitività dei sistemi produttivi in quanto producono costi ingiustificati che drenano risorse pubbliche altrimenti lasciate al mercato, ingessano e disincentivano le attività di cittadini, imprese e della stessa PA.

Di qui l’importanza di aumentare l’efficacia dell’azione amministrativa attraverso interventi volti a migliorare la qualità e semplificare l’assetto normativo, a ridurre il numero delle norme esistenti, a ridurre gli oneri amministrativi a carico di imprese e cittadini, a ridurre i tempi burocratici di conclusione dei procedimenti.

Immancabilmente anche nel decreto “rilancio” (art. 264) la parola magica, invocata come panacea, è “semplificazione”. Tutti la invocano, salvo mettersi d’accordo su cosa debba intendersi e accontentarsi della riedizione di norme in vigore da oltre 50 anni e ciò nonostante rimaste inattuate perché sgradite a molte PA.

Lo stesso concetto di semplificazione si riferisce ad azioni e leve che intervengono su diversi ambiti dell’azione amministrativa: dalla trasparenza e pubblicazione di dati, documenti e informazioni, alla digitalizzazione dell’azione amministrativa e della comunicazione con il cittadino-utente passando per le azioni relative alla decertificazione e alla riduzione degli oneri amministrativi per le imprese.

Queste le linee guida secondo le best practices amministrative, peraltro già contenute nella legge generale sul procedimento amministrativo (L. n. 241/1990):

  • Identificare e rispettare tempi certi e brevi per la conclusione dei procedimenti amministrativi (art. 2);
  • Individuare responsabilità certe per eliminare l’inerzia amministrativa (art. 2, 2-bis e 6);
  • Utilizzare gli istituti giuridici di semplificazione, quali la conferenza di servizi, il silenzio-assenso, la SCIA/DIA, ecc. (art. 14, 19, 19-bis, 20);
  • Utilizzare le tecnologie dell’informazione per digitalizzare la comunicazione tra le pubbliche amministrazioni e per l’interazione tra le p.a. e i cittadini e le imprese (art. 3-bis L. 241/1990).

Altri strumenti sono stati, poi, prescritti, dal Codice dell’Amministrazione digitale (D. Lgs. 82/2005):

  • Utilizzare gli strumenti tecnologici a disposizione per la dematerializzazione dei processi: firme elettroniche, sistemi di gestione documentale, fatturazione elettronica, ecc.
  • Favorire la circolazione e la fruizione delle informazioni attraverso l’apertura delle banche dati, la pubblicazione dei dati sui siti web istituzionali e automatizzando lo scambio dei dati attraverso l’interoperabilità tra i sistemi informativi;
  • Intraprendere un percorso di decertificazione, sostituendo la presentazione di certificati con la presentazione di dichiarazioni e di autocertificazioni, definendo contestualmente processi e responsabilità per le attività di controllo e di verifica delle informazioni;

Altre disposizioni sono poi contenute nella normativa sull’accesso civico (cd. FOIA, in vigore sin dal 2013 e oggetto di rivisitazione nel 2015 e nel 2016), come quelle tese a favorire la trasparenza dell’azione amministrativa e la riduzione degli oneri informativi a carico di imprese e cittadini attraverso la pubblicazione dei dati sui siti internet istituzionali. Ma siamo ancora lì, inchiodati alle procedure inutilmente arzigogolate dell’INPS, prima cartacee e ora riprodotte su supporto telematico, attentissime agli adempimenti formali e niente affatto ai risultati.

Non si tratta di un problema nuovo. Il tema della semplificazione, affrontato in Italia fin dagli inizi del secolo – come ricordato da Guido Melis, nella sua Storia dell’amministrazione italiana (1861-1993) – riceve una consacrazione normativa dapprima con la l. n. 15/1968 e poi con le leggi n. 241/1990, n. 537/1993, n. 59/1997. In tale contesto la semplificazione dei procedimenti muove in tre direzioni: la semplificazione della struttura (conferenze di servizi e accordi tra amministrazioni; termine di conclusione del procedimento; abilitazione dell’amministrazione a procedere indipendentemente da pareri obbligatori e valutazioni tecniche non rese entro un determinato termine); la limitazione delle conseguenze negative dell’inerzia della amministrazione e la semplificazione/liberalizzazione dell’avvio di determinate attività; la semplificazione dell’attività del cittadino che viene in contatto con la pubblica amministrazione (ad esempio attraverso l’autocertificazione). Da allora, è stato un continuo rincorrere la semplificazione attraverso l’emanazione di norme di legge, fino al decreto legge di “rilancio”.

Tutta questi sforzi per trovare rimedi al problema della semplificazione hanno generato risultati inferiori alle aspettative, se non veri e propri fallimenti. La causa principale di questi insuccessi sta nell’aver considerato la semplificazione come un problema di riscrittura dei testi normativi, affidando ai giuristi la sua soluzione.

In realtà, è acclarato che l’omogeneità calata dall’alto corre il rischio di generare più complicazioni che semplificazioni. Infatti, secondo Michel Crozier “un’organizzazione burocratica è un’organizzazione che non riesce a correggersi sulla base dei suoi errori”. Il fatto di non incorporare nelle politiche regolative fasi di valutazione – sia interna, sia indipendente – condanna le amministrazioni a rimanere burocrazie. Riguardo poi alle logiche e alle ‘illogiche’ dei funzionari amministrativi, giova partire da Victor Thompson che già nel 1964 aveva collegato in modo convincente la ‘buropatologia’ con il senso di insicurezza personale che induce un funzionario a privilegiare in modo abnorme la propria autotutela rispetto ai fini dell’organizzazione in cui opera. Per il funzionario-tipo, il principio “meglio un modulo (o un timbro, o una firma) in più, che uno in meno” è una forma di assicurazione contro l’elevato rischio di sanzioni da parte dei superiori e della magistratura.

Come nella medicina difensiva, l’avversione al rischio e l’autotutela sono i criteri che improntano le strategie dell’amministrazione sostanzialmente indifferente all’impatto delle sue precauzioni sul benessere del suo “cliente”. Sulla base di questa logica perversa, nessuno dovrebbe utilizzare l’autovettura in quanto il rischio di un incidente stradale non è uguale a zero. Dunque, per usare una locuzione (correttamente) usata dal premier Conte per giustificare la fine del lockdown, l’attitudine amministrativa al “non fare” corrisponde ad un “rischio calcolato”, anzi ad un moral hazard di chi ha ben compreso che l’ordinamento materiale non considera affatto equivalenti – come invece si legge nei codici e nei manuali di diritto – le azioni e le omissioni. Dunque bisognerebbe lavorare per migliorare questo punto critico, anziché limitarsi a sfornare a ripetizione grida manzoniane, soprattutto se sono un déjà vu.

In Italia, poi, è forte la credenza che, per ottenere la semplificazione, basti tagliare, eliminare, togliere di mezzo norme, uffici, procedure. Questa semplificazione attraverso l’eliminazione è una strategia perseguita da almeno tre decenni, da governi di opposti orientamenti politici, con un’ampia serie di strumenti: dai testi unici alle sanzioni, dai roghi delle leggi inutili ai moduli unificati. Se poi il modulo per funzionare e ricondurre a poche caselle la grande varietà degli interventi che devono essere descritti richiede istruzioni di 100 pagine, questo non impedisce ai politici di sbandierare il successo, ai dirigenti di ricevere gli incentivi per i risultati raggiunti, ai giornalisti frettolosi di parlare di tagli alla burocrazia.

E come Candido di Voltaire, i cittadini vissero felici e pensando di trovarsi nel migliore dei mondi possibili.

Marco Mariani*, com.unica 24 maggio 2020

*Marco Mariani è un avvocato con studio in Firenze e Roma. Abilitato all’esercizio dinanzi alle giurisdizioni superiori. Docente universitario a contratto in Diritto dei servizi pubblici. Ha curato 23 volumi di contenuto giuridico e pubblicato 50 articoli su riviste giuridiche. È stato relatore in oltre 100 occasioni tra convegni, seminari e corsi (www.cattemariani.com).