Papa Leone XIV celebra lo sport come scuola di vita

Nel Giubileo degli sportivi, il Papa parla dello sport come terreno di speranza. Tra citazioni di Giovanni Paolo II e l’esempio di Pier Giorgio Frassati, l’invito a “giocarsi” per gli altri
Il Giubileo dello Sport, ventesimo grande evento dell’Anno Santo 2025, ha trasformato il cuore della cristianità in un’arena di spirito e corpo, di fatica e fede. Sabato 14 e domenica 15 giugno, Roma ha accolto allenatori, atleti, dirigenti e appassionati provenienti da ogni angolo del pianeta con il fervore di una città che sa ancora vibrare per ciò che conta: non la vittoria in sé, ma la testimonianza. E nel giorno della Santissima Trinità, Papa Leone XIV ha rivolto il suo discorso ai presenti come un coach universale, ma con accenti da poeta dell’anima: «Cari sportivi, la Chiesa vi affida una missione bellissima: essere, nelle vostre attività, riflesso dell’amore di Dio Trinità per il bene vostro e dei vostri fratelli».
Il Papa è sceso in campo come fosse uno di loro. Ha parlato agli atleti, ma anche agli allenatori e alle famiglie, con parole che non hanno il passo lento della dottrina ma l’agilità di un pensiero che corre: «Il binomio Trinità-sport non è di uso comune, eppure non è fuori luogo. Ogni buona attività umana porta in sé il riflesso della bellezza di Dio. E Dio non è statico: è comunione, relazione viva». L’invito è chiaro: trasformare il gesto atletico in esercizio spirituale. Non per moralismo, ma per riscoprire – nella concretezza del corpo, del tempo e della fatica – una forma di trascendenza. «Lo sport può aiutarci a incontrare Dio Trinità: richiede un movimento dell’io verso l’altro, certamente esteriore, ma soprattutto interiore. Senza questo, si riduce a sterile competizione di egoismi».
Il momento più potente del discorso – e quello che molti porteranno con sé più a lungo – è stato forse quello in cui Leone XIV ha rivelato la grammatica nascosta in una delle parole più semplici dello sport. «Gli spettatori gridano: “Dai!”. È un imperativo bellissimo: è l’imperativo del verbo dare». Non si tratta solo di correre più forte, di saltare più in alto. Si tratta di darsi. «Per i sostenitori, per i propri cari, per i collaboratori, per il pubblico, anche per gli avversari. Se si è veramente sportivi, questo va al di là del risultato». Un’idea che riecheggia l’omelia di San Giovanni Paolo II del 1984, da lui stesso citato: «Lo sport è gioia di vivere, gioco, festa. Va valorizzato mediante il recupero della sua gratuità, della sua capacità di stringere vincoli di amicizia, di favorire il dialogo e l’apertura, al di sopra delle dure leggi della produzione e del consumo».
Papa Prevost conosce bene le sfide dell’oggi: l’individualismo esasperato, la solitudine urbana, la trappola dei mondi virtuali. E così ha indicato tre traiettorie possibili per lo sport del futuro. Primo: «in una società segnata dalla solitudine, lo sport – specialmente quello di squadra – insegna la collaborazione, il camminare insieme». È scuola di comunità, antidoto all’io tiranno. Secondo: «in un mondo sempre più digitalizzato, lo sport valorizza la concretezza dello stare insieme, il senso del corpo, dello spazio, della fatica». È resistenza alla smaterializzazione dell’esperienza, palestra per la realtà. Terzo: «in una società competitiva dove solo i vincenti sembrano avere diritto di cittadinanza, lo sport insegna anche a perdere. L’atleta che non sbaglia mai, che non perde mai, non esiste». E ancora: «I campioni non sono macchine infallibili, ma uomini e donne che, anche quando cadono, trovano il coraggio di rialzarsi».
La parabola più bella è però quella tracciata attorno alla figura del Beato Pier Giorgio Frassati, patrono degli sportivi, la cui canonizzazione è attesa per il 7 settembre. «La sua vita, semplice e luminosa, ci ricorda che, come nessuno nasce campione, così nessuno nasce santo. È l’allenamento quotidiano dell’amore che ci avvicina alla vittoria definitiva e che ci rende capaci di lavorare all’edificazione di un mondo nuovo».
Lo sport, dunque, come ascesi, come via, come metafora spirituale. Una corsa non verso la coppa, ma verso l’altro. Non un trofeo, ma un volto. Durante la Messa conclusiva, celebrata dal Pontefice sotto la volta di Michelangelo, sono risuonate le parole di un altro Papa, Paolo VI, che nel 1965 ricordava come lo sport avesse contribuito, nel dopoguerra, a “riportare pace e speranza in una società sconvolta”. E Leone XIV lo ribadisce oggi, in un’epoca in cui nuovi conflitti, invisibili o dichiarati, disgregano il tessuto della convivenza. «Non è un caso che nella vita di molti santi del nostro tempo, lo sport abbia avuto un ruolo significativo, sia come pratica personale sia come via di evangelizzazione». Il finale del discorso è stato un affondo gentile, quasi una carezza d’alta quota. Il Papa ha evocato la figura di Maria come madre in corsa: «Maria, nel Vangelo, ci appare attiva, in movimento, perfino di corsa. Che ci accompagni nelle nostre fatiche e nei nostri slanci, e li orienti sempre al meglio, fino alla vittoria più grande: quella dell’eternità, il campo infinito dove il gioco non avrà più fine e la gioia sarà piena».
Un Giubileo dello Sport, questo, che ha parlato al cuore senza alzare la voce. Un invito a correre sì, ma con lo spirito; a competere, ma nella carità; a dare, non solo a vincere. Ecco allora che quel “Dai!” che si leva dalle tribune acquista un senso nuovo.
Sebastiano Catte, com.unica 16 giugno 2025