L’estate di Mario Nardulli e le pagine di descrizione di un mondo che non c’è più. Due letture utili per capire il passato e il presente della nazione.

C’è un libro di uno scrittore che è stato anche un valentissimo e originale pittore, cui più di un’opera figura a tutto titolo tra le opere letterarie più importanti del XX secolo: sto parlando di Carlo Levi, e tra tali opere basta citare dei titoli come “Cristo si è fermato a Eboli”, “Le parole sono pietre”, “Il futuro ha un cuore antico” che immediatamente innescano nel nostro immaginario un posto di tutto rilievo. Il libro di cui voglio parlare forse non ha lo stesso impatto a livello di fama e di immaginario collettivo, però lo ha fortissimo a livello individuale come per chi come me ha sempre avuto una sorta di attrazione, passione, quasi struggimento in quanto velato desiderio, di quel “mancato” che sottende un sequenziale e melanconico “avrebbe potuto essere…”. Si tratta de “L’Orologio” un libro che comincia con l’impressione di una Roma che “non c’è piu’: “ La notte a Roma….” , così comincia la narrazione “ …sembra di sentire il ruggito di leoni” ed ecco che subito siamo trascinati ad una città che il traffico delle automobili non aveva ancora soffocato i suoi suoni, e la ripresa della marce dei tramvai che si inerpicavano per le numerose salite degli antichi “Sette Colli” e di nuovi (si fa per dire) “monti”: Verde, Mario, Sacro, producevano quel sommesso rumore.

Carlo Levi

Le pagine di descrizione di un mondo che non c’è più rimanda al mondo incantato dell’infanzia, quando un giorno durava mille anni e il sole su nel cielo sembrava non voler calare mai e quel mondo era là, sotto il balcone, che bastava allungare una mano per afferrarlo tutto quanto. L’infanzia quella che Freud ha definito il paradiso terrestre di tutti noi, una sorta di “intelligenza pietrificata” della natura, per dirla con Schelling, è descritta nel romanzo in maniera poetica e struggente, ma non è tutto! Il romanzo è ambientato nel primissimo dopoguerra, nell’atmosfera di grande, grandissima speranza del Governo Parri: nessun compromesso con l’orrido passato, piazza pulita con tutte le collusioni, niente “se” e niente “ma”.

Ferruccio Parri veniva dal Partito d’Azione ed era stato il comandante ed uno dei più fulgidi eroi della Resistenza. Antifascista da sempre era anche stato un valorosissimo combattente della Grande Guerra dove a soli 28 anni si era guadagnato il grado di Maggiore, la Croce di Savoia e una sfilza di medaglie al valore e non solo italiane, ma anche inglesi e francesi. Eppure tutto questo non era sufficiente ad accreditare tale splendida persona come traghettatore verso una nuova Italia. Le pagine del libro di Levi, riportano con particolare crudezza, tutte la serie di operazioni messe in atto da una società, che temeva come la peste, proprio le istanze di cui Parri si faceva paladino: rinnovamento ma anche riesamina del recente passato, senza indulgenze e senza patteggiamenti. Quando era una parola a fare soprattutto paura: Epurazione! Epurazione verso chi aveva favorito, appoggiato o anche solo tollerato il Fascismo, soprattutto chi ne aveva tratto benefici, vantaggi e fatto carriera. Si aveva subito assistito al tentativo di discredito del personaggio, l’epiteto di “fessuccio” storpiando il nome di battesimo Ferruccio, l’adamantina e integerrima onestà, comune a tutto il movimento di provenienza, il Partito d’Azione e quindi la sua indisponibilità a compromessi, quali perfino un uomo come Palmiro Togliatti si stava rivelando, per ragioni di Stato, disponibile.

Insomma per farla breve uno spaccato di quel “mancato” cui l’Italia di allora, stava appunto tessendo le fila, un mancato di assurgere a Nazione “corretta” che andava traendo sempre più sostenitori e “cavalier serventi”, con una stampa addomesticata alla ragion di Stato, a quelli che avrebbero dovuto essere gli esecutori, dall’alto dirigente, al medio funzionario, fino all’ultimo usciere, che facevano in modo che ogni singola pratica si impantanasse, fino a scomparire del tutto, nei meandri di una burocrazia, che cominciava a rialzare la testa.

Siamo nel periodo degli aiuti del Piano Marshall, della scelta di campo tra Occidente e Oriente e ne vedremo il seguito, i prodromi della Guerra Fredda, De Gasperi e la Democrazia Cristiana, i comunisti fuori dal Governo, dopo aver fatto in modo che proprio loro (Togliatti Guardiasigilli) togliessero la patata dal fuoco della pacificazione nazionale, con quella passata alla storia come “amnistia Togliatti”, insomma un po’ l’Italia di sempre, quella che abbiamo sempre conosciuta. Un grande libro l’Orologio, un libro che quasi si ha paura a rileggere per non trovarsi troppo al cospetto di quel “mancato” di “quell’avrebbe potuto essere” e proprio in ultimo, così quasi come boutade, un’accezione molto soggettiva, molto personale, che investe l’antitesi uomo-macchina e che però giustifica il titolo dato al romanzo, dove l’autore è portato a ritenere che giustappunto si stabilisca una sorta di affiato o di ripulsa tra l’uomo e uno dei suoi oggetti apparentemente più neutrali, come un orologio.

Ferruccio Parri

Dalla città ancora coi suoi sommessi rumori notturni, tipo il peregrino ruggito di leoni, che rimanda anche a misteriose e interminabili carovane sotto la luna del deserto, si rientra alla cronaca e alle abitudini di quel lontano periodo, il Governo oramai condannato, addio a Parri, l’interno delle case con quell’inveterata abitudine di dare camere in affitto, un po’ come quasi “vendersi l’anima” dice l’autore del libro e in quelle camere, con i mobili “rimediati” l’odore di polvere la cui consistenza è resa manifesta da miliardi di granelli che un raggio di sole che filtra dalla spessa tenda fa animare in quello spicchio di stanza, le lancette del nostro “orologio” si fermano inesorabilmente. Chissà forse è venuto un inquilino che pensa che non è poi così importante raccordarsi con il tempo ad ogni istante, tutto sommato anche delle lancette ferme, indicheranno due volte al giorno l’ora giusta.

Ora introdurrò un filo quasi magico, diciamo di posposta sincronicità che correla il libro di Levi con un saggio del giornalista scrittore Ermanno Rea che è incentrato sul grande economista Federico Caffè e l’insoluto mistero della sua volontaria scomparsa nella notte tra il 14 e 15 aprile 1987. Il libro si chiama “L’ultima lezione” e fa appunto cenno alla lezione del giugno 1984, che il professor Caffè tenne di commiato dall’insegnamento all’Università e che, per l’autore rappresenterebbe la piena esplicazione della sua scomparsa. Fa da trait d’union sincronico dei due libri, giustappunto il titolo del primo che è anche uno degli oggetti da cui Caffè non si separava mai: l’Orologio. Orologio che invece fu ritrovato nel tavolino accanto al letto, dopo la sua scomparsa assieme a chiavi di casa, e documenti; come osserva giustamente Rea “c’è qualcosa che più di un orologio dotato di forza simbolica? L’orologio scandisce il tempo della nostra giornata, delle nostre abitudini, delle nostre ansie: cosa può vuol dire il rinunciarvi se non che uno ha deciso di rinunciare a tutte queste cose e quindi alla vita stessa?”

Federico Caffè

L’orologio abbandonato da Caffè si carica di rinuncia o forse proprio di quel mancato di cui si è fatto cenno parlando del romanzo di Levi: un mancato della storia nel primo, un mancato di tutta una vita nel secondo, che assume le valenze di rinuncia totale a somiglianza di una altrettanta famosa improvvisa e misteriosissima scomparsa, quella del fisico Ettore Majorana, nel 1938.

L’orologio che titola il romanzo di Carlo Levi ha difatti un correlato storico ben preciso e un riferimento circostanziato a fatti e misfatti di quei 5 mesi del 1945 che riguarda l’atmosfera “mancata” di quei pochi mesi del governo Parri e che, guarda caso rappresenta l’unica partecipazione alla politica attiva di Caffè come capo di gabinetto del Ministero della Ricostruzione retto da Meuccio Ruini.

Col ruggito dei leoni a Roma provocato dai cambi di marcia dei tramvai, il paradiso perduto dell’infanzia e l’atmosfera di una possibile ma resa impossibile rinascita d’Italia il libro di Levi ci consegna dei paradigmi di struggente rimpianto su quell’avrebbe potuto essere, quel “mancato” alla storia, che diviene nel libro di Rea ultima e definitiva rinuncia, non alla storia, ma alla stessa vita tramite l’elisione dello specifico che si era scelto per referenziarla: la scienza dell’economia per Caffè, come parimenti era successo 50 anni prima la scienza della fisica per Majorana.

Mario Nardulli/com.unica, 27 luglio 2020