Amati come vittime, odiati se percepiti in modo differente. La memoria ci serve per vivere il futuro. Una riflessione di Yasha Reibman 

La ripresa dell’antisemitismo deve porci, tra le tante, una domanda. Quella che suscitano le parole di Liliana Segre, che – entrando all’iniziativa della Comunità ebraica di Milano per la liberazione degli ostaggi nelle mani di Hamas – ha detto: “Non voglio parlare, perché altrimenti mi sembrerebbe di aver vissuto invano”. La Segre a mio avviso invita a chiederci, oltre a quali siano i pregiudizi antisemiti presenti in ciascuno di noi, se quanto abbiamo fatto finora per affrontarli sia stato adeguato o no. Per dirla in una frase, che suona terribile anche solo pronunciarla, la giornata della Memoria ha ancora senso? O meglio, è stata finora gestita in modo adeguato? Quanto sta succedendo in queste settimane ci pone davanti alla necessità di rivedere come celebrarla? 

La Giornata della Memoria, focalizzata sul ricordo delle persecuzioni naziste verso gli ebrei, nasce dalla convinzione che una maggior consapevolezza delle terribili conseguenze dell’antisemitismo in Europa avrebbe portato a una immedesimazione con gli ebrei e alla conseguente riduzione dell’antisemitismo stesso. Dobbiamo chiederci se paradossalmente, al di là della nostra volontà e in modo inaspettato, non abbia portato a rafforzare un nuovo pregiudizio antiebraico. La Giornata della Memoria, raccontando lo sterminio e la deportazione, ha forse contribuito a far sparire gli ebrei come persone concrete e reali, con le proprie tradizioni, religione e usi? La scrittrice Dara Horn in “People love dead jews” racconta che ad Amsterdam, nella casa in cui si nascose Anna Frank, uno dei luoghi della memoria per definizione, la scelta di un dipendente di lavorare con in testa la kippah, il tipico copricapo ebraico, ha sollevato clamore e un lungo contenzioso all’interno dell’istituzione. Con la giornata della Memoria gli ebrei sono diventati le Vittime con la V maiuscola. Vittime inermi, la quintessenza della vittima, l’idea platonica di vittima. Non a caso, all’espressione ebraica Shoa, in Europa si preferisce utilizzare il termine Olocausto, che richiama un sacrificio religioso nel quale la vittima veniva bruciata completamente. C’è un evidente richiamo mistico nella scelta di utilizzare questa parola. In questo modo, l’immagine dell’ebreo/vittima è diventata una identità rigida rispetto alla quale ogni movimento estraneo può istintivamente essere percepito come inaccettabile e suscitare rabbia. Gli ebrei sono amati come vittime, ma tornano a essere odiati se percepiti in modo differente. 

[…]

Yasha Reibman/Il Foglio 15 novembre 2023

Qui il link per leggere l’articolo integrale