Jerevan

Sul taxi che verso le 4 del mattino, a Jerevan, mi conduceva dall’aeroporto all’hotel dove il mio amico Roberto aveva prenotato una stanza per me, il taxista mi disse cose che, nel corso del viaggio, sentii ripetere più volte e che, evidentemente, rappresentano una sorta di “fondamentali” nell’autocoscienza armena. Innanzi tutto la religione. Da subito venni informato che l’Armenia fu il primo paese al mondo a proclamare, nel 301, il Cristianesimo religione di stato e questo ben 79 anni prima dell’impero romano, che lo fece nel 380 con l’Editto di Tessalonica. Quindi la soddisfazione per il riconoscimento italiano della qualifica di “genocidio” nei confronti delle persecuzioni di cui furono vittime gli armeni da parte dei turchi e poi i numeri della diaspora: nel mondo ci sarebbero circa 11 milioni di armeni, di cui solo 3 in Armenia (e poco più di un milione concentrato a Jerevan!). Inoltre un senso di claustrofobia: l’Armenia non ha sbocchi al mare, gran parte delle sue frontiere corre con paesi con i quali i rapporti o sono difficili (Turchia) o sono addirittura bellici (l’Azerbaijan per l’enclave armena del Nagorno-Karabakh teatro di una guerra dal 1992 al 1994 a oggi tutt’altro che risolta) mentre ottimi sono i rapporti con la cristiana Georgia e lo sciita Iran (altrettanto confinanti). Infine, certo non per importanza, le grandi speranze per il nuovo corso politico maturatosi lo scorso anno dopo la sostituzione del presidente e l’ascesa al potere di un coalizione di partiti che ha fatto della lotta alla corruzione il proprio cavallo di battaglia (in questo il mio interlocutore vedeva dei netti miglioramenti, ma a suo avviso ancora incompleti).

Monumento del genocidio

Mi ero ritrovato a Jerevan per uno di quei casi della vita che fanno ben sperare. L’anno scorso avevo rivisto un mio caro amico con cui non avevo più contatti da tantissimi anni, da quando, finita l’Università, si era trasferito in Germania a lavorare come insegnante. Il rivedersi fu un coinvolgente momento di ritrovati interessi e comuni punti di vista; poiché Roberto è il responsabile degli scambi culturali tra la sua scuola e un’altra scuola di Jerevan mi parlò dell’Armenia. Così decisi, immediatamente, che alla prima occasione sarei andato anch’io e quindi, eccomi su un taxi in piena notte a parlare in inglese su questa affascinante nazione. Così con questa entusiastica, dettagliata presentazione fatta dal simpatico, giovane taxista mi sono ritrovato catapultato poco dopo, nonostante il viaggio e il fuso orario, per la prima volta nella mia vita in una nazione di cui conoscevo la fama per i monasteri (di cui parlerò più avanti) e per una storia gloriosa le cui nozioni si fermavano però a sporadiche conoscenze sempre in relazione a qualcun altro (i romani, i persiani, i bizantini, i veneziani, gli ottomani ecc.) e, purtroppo, mai per il suo valore in sé. Valore che ebbi modo di ammirare subito perché Jerevan è una città dalle numerose, interessanti sfaccettature. La prima cosa che mi colpì furono i giardini e il numero di alberi. Praticamente tutte le vie del centro sono alberate, risultano essere ampi viali in cui l’ombra e il fresco dei vegetali rende la città particolarmente accogliente e sedersi a bere un caffè in queste vie è un rito che consiglio vivamente a tutti, così come la sera cenare sui balconi che si affacciano sui viali sentendosi così non in Asia ma in una qualsiasi città europea; il bello è che la municipalità ha anche intenzione di incrementare questo verde! Ma Jerevan è piena di piccoli gioiellini che emergono in un tessuto urbano profondamente moderno come la piccola e preziosa cappella Katoghike. Questa chiesetta, scoperta solo nel 1936, si è miracolosamente salvata dal furore iconoclasta sovietico che demolì molte chiese e quasi tutte le moschee. E’ costruita con blocchi di pietre nere e rosso scuro con un accostamento cromatico che si ritrova in quasi tutti gli edifici sacri armeni, a pianta a croce greca (cioè con la lunghezza delle braccia uguale in tutt’e quattro le direzioni, come S. Marco a Venezia) è a cupola centrale, altro elemento comune a tutte le chiese armene. Colpisce una piccola nicchia ricavata sulla sinistra che è stata abbellita da un grazioso, elegante, aereo arco inflesso; tenuto conto che la chiesetta risale al XIII secolo mi sembra evidente l’influenza dell’arte araba e persiana dell’epoca. L’Armenia si presentava in tal modo ai miei occhi quasi come un ponte tra le terre musulmane e quelle cristiane riuscendo ad armonizzare le differenti influenze, si vedrà spesso questa fruttuosa contaminazione ma nella cappella di Katoghike quel piccolo arco appare come un gioiellino ornamentale dentro un altro piccolo gioiello architettonico.

E a proposito di gioielli come non citare la biblioteca e il centro di ricerca Matenadaran che, collocato scenograficamente su una collina che domina uno dei viali più importanti della città, conserva decine di migliaia di manoscritti antichi, medievali e moderni provenienti da tutto il mondo. Una disponibile e preparata guida ha illustrato (in tedesco, come in tutte le altre visite essendo il tedesco la lingua ufficiale del viaggio) le rarità e i preziosi scritti esposti; così davanti alle mie cùpide pupille sono sfilati dei veri e propri capolavori come un testo di geometria di Avicenna in arabo del XVII sec. (con relativi disegni) un Evangelo in palinsesto del X sec., un papiro egizio del VIII sec. e poi cartine, libri, disegni, codici, manoscritti, miniature, abbellimenti medievali dei testi ecc. Insomma un tripudio di un preziosissimo retaggio culturale quasi bimillenario. Ho così scoperto un particolare interessante: il primo libro scritto in armeno fu stampato e pubblicato nel 1512 a Venezia confermando così il ruolo particolare che la città lagunare ebbe nei rapporti con queste terre e tutt’oggi a San Lazzaro degli Armeni si conserva una collezione di manoscritti armeni seconda, in tutto il mondo, solo a quella del Matenadaran.

Jerevan è una città moderna con ampi spazi, boulevard, prospettive talvolta gigantesche e una periferia che non ha ancora del tutto superato la fase del cosiddetto socialismo reale, ma è anche un luogo che è stato perennemente abitato per un periodo di ben 2800 anni. Non molto lontano dal centro, su una collina che domina la città sono stati scoperti i resti di un città fortificata risalente all’VIII sec. a.C. Erebuni fu fondata, stando alla tavoletta in cuneiforme ivi scoperta, nell’anno 782 a.C. Il sito era organizzato intorno a tre aree di attività, quelle del potere politico, sacerdotale e commerciale e gli archeologi vi hanno ritrovato le tracce di un sapiente sistema di controllo delle acque per l’irrigazione dei campi e prove della lavorazione per ottenere vino, olio e birra. Una civiltà già avanzatissima che dominava un’amplia area che, avendo come fulcro la zona intorno al lago di Van (in Turchia) si estendeva fino quasi al mar Nero, al lago Sevan, al nord della Mesopotamia e all’Anatolia. Un impero che, sebbene indebolito dagli assiri, continuò a dominare la zona fino all’arrivo dei Persiani, nel VI sec. e oltre ancora: è la civiltà urartea. È interessante una piccola riflessione. Come si sa le lingue antiche sono innanzi tutto consonantiche, ovvero non contengono vocali; se teniamo presente questo principio si nota un’affascinante convergenza tra i nomi: eReBuNi (RBN) può essere la forma originale di jeReVaN (RVN), ma uRaRTu (RRT) era senz’altro solo un altro modo per dire aRaRaT (RRT). Suggestioni affascinanti sul bordo di quel pozzo senza fondo che chiamiamo storia. D’altra parte l’Ararat, questo vulcano spento alto più di 5000 m. domina col suo profilo perennemente innevato e insieme al Piccolo Ararat, altro vulcano che gli sta di fianco, la città di Jerevan; ora in territorio turco, l’Ararat è il monte citato nella Bibbia (Gen. 8,4) in cui approda l’Arca di Noè dopo la fine del diluvio universale. Viaggiando per l’Armenia il profilo di questa altissima montagna segue il viaggiatore quasi dappertutto e si caratterizza come una presenza continua e caratterizzante del paesaggio. Se a Jerevan, nel tardo pomeriggio, si sale sulla Cascata, un grande scalinata, intervallata da aiuole, che risale un’erta collina si può ammirare in tutto il suo splendore, alla luce del crepuscolo il grandioso panorama che spazia dalla città fino all’imponente, massiccia presenza montuosa del vulcano. È a quest’ora che si percepisce bene il motivo per il quale Jerevan è detta anche la citta rosata; i raggi del sole esaltano infatti il delicato color rosa dei muri delle case costruite in tufo, una pietra di origine vulcanica che, con questo colore, è presente anche in Lazio nella provincia di Viterbo. E la sera, nella grande Piazza della Repubblica, tra bambini con gli sguardi affascinati (ho visto tantissimi bimbi e giovani e nessun cane), genitori che passeggiano tranquillamente e coppiette che teneramente si stringono in vita è bello osservare i giochi d’acqua delle tante fontane che funzionano al ritmo delle musiche (classiche, moderne, di film) e vengono investite da fasci di luce colorata.

Quante cose ancora varrebbe la pena segnalare. Restando vicino alla Cascata come non considerare le belle statue di Botero o il monumento all’amicizia italo-armena, il teatro dell’Opera, il piccolo ma attrezzatissimo e interessante museo Kachaturian, il Museo di Storia ecc. Ma non è mio obiettivo quello di redigere un noioso elenco o, peggio ancora, una guida della città. C’è però un posto che vale la pena vedere; non tanto in sé, quanto per il significato che racchiude per tutti gli uomini di oggi. Nel 1915 nella notte tra il 23 e il 24 aprile il governo nazionalista di Istanbul facente capo ai “Giovani Turchi” iniziò a far arrestare e deportare migliaia di armeni: è il prologo di quella immane tragedia che portò alla morte per stenti, maltrattamenti, fame nel corso delle deportazioni tra 1500000 e 2000000 di individui; il primo genocidio del ‘900 che servì da esempio per la Shoah ebraica meno di tre decenni più tardi e di cui ancor oggi è vietato in Turchia parlarne pubblicamente. Il Museo e monumento del genocidio armeno sono luoghi che vale la pena visitare per mantenere il ricordo di quanto l’uomo possa essere terribilmente diabolico. Un fuoco perenne arde tra dodici (simbolo della completezza) ampi archi che partono da terra e s’innalzano incurvandosi su di esso; la memoria armena è purtroppo segnata anche da questa terribile esperienza.

Monasteri e Khachkar

Il giorno 8 Ottobre dell’anno del Signore 451 si inaugurò un imponente Concilio Ecumenico che per numero di partecipanti sarebbe stato superato solo dal Vaticano II più di un millennio e mezzo dopo. Il concilio di Calcedonia, città fondata dai greci e ora quartiere di Istanbul (Kadikoy), era stato convocato per definire dottrinalmente le due nature (umana e divina) del Cristo contro l’eresia monofisita che, esaltandone la natura divina, giungeva a negarne l’umanità. Il Concilio stabilì la retta dottrina, fu un successo di Papa Leone (che si ricorda anche per la leggenda secondo cui avrebbe fermato da solo le orde unne di Attila ad Aquileia), ma, purtroppo, non riuscì a stabilire l’unità dei Cristiani. Vescovi egiziani, siriaci, etiopici non riconobbero le decisioni mentre l’Armenia, che era stata invasa dai Persiani, non mandò nessun vescovo e non aderì al dettato conciliare.

Da quella data in poi la Chiesa armena andò prendendo le distanze dalle altre Chiese e quando Giustiniano, un secolo dopo, tentò un controllo più aggressivo del regno la spaccatura si approfondì irrimediabilmente, unendo motivazioni dottrinali e rivendicazioni indipendentiste. La Chiesa armena è quindi autocefala; dottrinalmente non è lontana, non si proclama e non è assolutamente monofisita, né dal cattolicesimo né dall’ortodossia (in passato si è tentato più volte una riunione) e ha sviluppato un apparato liturgico imponente e suggestivo. Penso sia importante tenere a mente queste scarnissime informazioni quando si visitano i monasteri armeni; sono tantissimi e hanno rappresentato per la storia di questo paese un momento fondamentale per la conservazione, l’approfondimento, lo sviluppo della cultura e dell’identità collettiva della popolazione.

Nei giorni che ho soggiornato nel Caucaso ne ho visitati molti e naturalmente non è il caso di descriverli a uno a uno, ma due particolarità vanno subito tenute presenti: i monaci non appartengono, come in occidente, a ordini con gerarchie separate ma rispondono, come quello che noi chiamiamo clero secolare, alle gerarchie territoriali e al Katholikòs; inoltre se i monasteri possono dare l’impressione di essere architettonicamente simili tra di loro, in realtà a fronte di queste similitudini si articolano profonde differenze. Le due cose sono collegate perché, al contrario che in occidente dove esistono caratteristiche artistiche legate ai singoli ordini (arte benedettina, cistercense, francescana ecc.), il monastero armeno appare espressione di una omogenea rappresentazione del mondo e della fede. Ciò che subito colpisce sono i colori. Tutti i monasteri sono realizzati con pietre vulcaniche nere e rosso scuro; il che dà un’impressione di austera bellezza; pochissime chiese hanno un’illuminazione artificiale e le candele, la semioscurità, la luce che penetra da un oculo posto sulle sommità delle cupola e dal portone d’ingresso donano a queste costruzioni una bellezza ascetica. Nessuna statua, rarissimi dipinti con notevole predilezione per la figura di Maria; sembra così esprimersi una religiosità forte, solida e con una grande sensibilità per un “sacro” profondamente altro, eppur vicinissimo.

Chiesa di Burtelashan a Nowarawank

A queste suggestioni vanno aggiunte alcune caratteristiche architettoniche. La pianta è sempre a croce greca orientata sull’asse est-ovest con l’altare rivolto a est, è costante un ambiente centrale delimitato da quattro colonne-pilastri su cui si elevano archi talvolta a tutto sesto, talaltra leggermente a sesto acuto. Mi sono chiesto la ragione per cui sono sempre e solo quattro i pilastri e penso che la soluzione mi sia venuta a Norawank nella Chiesa di Surb Astvatsatsin dove in un ambiente quasi sotterraneo (questa chiesa è stranissima, con una ripida scalinata esterna che percorre in diagonale la facciata ai due lati dell’ingresso conducendo al piano superiore, dov’è l’altare) gli archi non sostengono la cupola ma il tetto dell’ambiente sovrastante; qui in corrispondenza di ogni campata sono scolpiti i quattro simboli degli evangelisti, quindi probabilmente il motivo per cui tutte le chiese posseggono questa struttura è da rintracciarsi in un fondamento evangelico (cosa che il mio amico Roberto, da buon teologo, aveva subito compreso senza vedere i fregi).

Su questi archi insiste sempre una cupola divisa in spicchi dal numero variabile e all’apice si trova l’oculo, all’esterno la cupola non è mai visibile rotonda ma sempre coperta da elementi che la trasformano in un cono o piramide. Mi soffermo un attimo sull’oculo. E’ incredibile come il nostro occhio abituato, o accecato, dall’illuminazione artificiale sia comunque immediatamente suggestionato dall’illuminazione naturale. Le chiese sono abbastanza buie, anche come detto per le pietre usate, la luce che arriva dall’alto ha quindi un’importanza enorme e ho voluto visitare San Giovanni Illuminatore, bella chiesa del X secolo, nel monastero di Hagadzin in due momenti diversi. In un caso, col cielo coperto, entrava un chiarore diffuso che si riverberava sulle pareti senza che la luce s’imponesse con forza, anzi una sorta di aerea gentilezza sembrava caratterizzare tutto l’edificio, ma quando il sole brillava nel cielo senza nuvole la luce entrava con un fascio netto, deciso, tagliente e illuminava con irruenza la parte della chiesa che colpiva.

Se nel primo caso sembrava quasi di assistere a un alleggerimento dell’edificio, nel secondo c’era qualcosa di caravaggesco, metafisico, qualcosa che non poteva non evocare l’inizio del Vangelo di Giovanni (“In Lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre” 1,4-5). L’altare non è mai posto sotto la cupola ma al fondo del braccio contrapposto all’entrata e, particolare di notevole interesse liturgico, non è mai a livello del terreno ma sempre sopraelevato, quando addirittura posizionato in un altro ambiente a cui si accede dietro una parete divisoria. In tal modo risulta netta la separazione tra celebrante posto in alto e che dà le spalle ai fedeli e i partecipanti al rito in basso e sempre in piedi, o in ginocchio, ma mai seduti non essendovi banchi. Ho avuto modo di assistere al rito solenne a Echmiatsin, la residenza del Katholikòs, e colpisce il continuo canto che caratterizza il rito, ma anche in questo caso il rito ha modellato l’architettura perché queste chiese posseggono un’acustica straordinaria.

Khor Virap

Al Monastero di Geghard, ponendosi al centro dell’ambiente, in corrispondenza all’oculo, il canto si spande per tutta la chiesa con una potenza e anche dolcezza che ha del commovente: non è solo forza, vi è in questo caso come un delicato e armonico crescere su se stesso della voce, un potenziarsi che ha dell’ineffabile, un’asciutta capacità di evocazione dell’Altro. Spesso le facciate delle chiese ricordano quel ruolo di cerniera tra oriente e occidente al quale si è già accennato. A Saghmosawank, realizzato nel XIII sec., il portale contiene in sé motivi orientali (stelle che richiamano quelle di David, un arco carenato) all’interno di una facciata in cui si presentano elementi, come l’arco a tutto sesto, che sembrano rimandare alla contemporanea arte europea. Mentre nella chiesa di Surb Karapet a Norawank l’ingresso è sormontato da una Madonna in trono con bambino che ricorda direttamente le sculture romaniche ma con in più un ricchissimo motivo floreale che avvolge le figure e che sembra evocare l’arte persiana. Si potrebbero aggiungere moltissimi altri elementi ma mi preme sottolinearne uno che non ha giustificazioni estetiche.

Spesso nelle pareti posteriori delle chiese vi sono come delle nicchie che percorrono in tutta la sua altezza l’edificio: sono elementi antisismici che alleggeriscono la struttura dandole elasticità; rendono bene l’idea dell’ingegno armeno e del problema dei terremoti che hanno devastato a più riprese queste regioni. Un caso a sé per l’importanza e la storia del sito è quello di Khor Virap, vero e proprio monastero-fortezza a ridosso della frontiera turca e di fronte all’Ararat. Su queste colline vulcaniche il monastero è solo l’ultimo atto di una storia quasi trimillenaria. Se la chiesa Astvatsatsin risale al XVII sec. il sito era già utilizzato in epoca urartea (dal IX-VIII sec. a.C.), divenne poi la capitale del regno armeno col nome di Artaxata. Qui si combatté la battaglia decisiva tra Lucullo e Tigrane II nel 68 a.C. (partecipò alla campagna, secondo Appiano e Plutarco, un comandante di cavalleria di nome Pomponio, forse quindi qualcuno della mia famiglia era già stato in Armenia!), fu presa nel I sec. d.C. dal generale romano Corbulone e rimase capitale dal 189 a.C. al 428 d. C.: è difficile pensare un luogo dove la storia sia più presente.

Alcune riflessioni, in chiusura, sui Khachkar, le croci di pietra. Sono un prodotto tipico dell’arte armena e se ne vedono tantissimi, di tutte le dimensioni e tutti impressionanti, alcuni con il bordo superiore ripiegato su se stesso come protezione contro le intemperie (sono i più recenti); in essi si rende particolarmente percepibile quell’incontro con motivi orientali a cui spesso si è fatto cenno. Nel blocco di pietra rettangolare è incisa una croce che, nelle quattro estremità, tende a biforcarsi dando vita a motivi floreali o ispirati all’uva. Sotto la croce possono esservi altri motivi come rosoni o altre foglie che si dipartono dal basso. E’ un certosino lavoro di intaglio con decorazioni labirintiche, una ricerca dell’ornamento che vuole mostrare come dalla croce fiorisca la vita, come l’eternità (simboleggiata dal rosone o dal cerchio posto sotto la croce) si manifesti nella Croce stessa. I tappeti persiani con motivi floreali hanno un aspetto simile, ma qui è il simbolo del Cristianesimo ad essere fons vitae. E mentre nelle rappresentazioni della Passione spesso sotto la Croce si trova il Cranio (Golgota), qui è dall’eternità che promana la salvezza attraverso la Croce. Con i suoi ghirigori nella pietra, i suoi intarsi, i suoi giri, il suo intrecciarsi in percorsi senza fine e continuamente ripiegantisi su se stessi, il suo fiorire debordante da ogni limite, l’ornamento del Khachkar ci narra qualcosa di noi e del labirinto che in noi è e che noi siamo.

[continua]

Nicola F. Pomponio, com.unica 12 giugno 2019

*Nella foto in alto l’Ararat che domina Jerevan