Il direttore de “La Stampa” Maurizio Molinari, autore di un recente saggio saggio sullo Stato Islamico, analizza la strategia del Califfato alla luce dell’attentato di Dacca.

La strage di italiani a Dacca è parte dell’offensiva di attentati in più continenti che fa emergere Abu Muhammed al-Adnani nel ruolo di sanguinario leader di uno Stato Islamico (Isis) in trasformazione. Nato nella provincia siriana di Idlib fra il 1977 ed il 1978, e cresciuto in quella irachena di Haditha, al-Adnani è considerato il capo delle operazioni militari di Isis in Siria nonché il portavoce e l’ideologo del Califfato proclamato da Abu Bakr al-Baghdadi il 29 giugno 2014.

Sul capo di al-Adnani pende una taglia di 5 milioni di dollari del Pentagono e in più occasioni i droni della coalizione occidentale hanno tentato di eliminarlo. Il 21 maggio è stato lui a pronunciare il discorso che ha delineato il cambiamento di strategia del Califfato: ha invocato attacchi «contro gli infedeli» nel mese di Ramadan e rivolto ai nemici ha affermato «potete anche catturare Sirte, Mosul e Raqqa ma noi torneremo alle origini della nostra Jihad». Ovvero, l’indebolimento territoriale di Isis a causa delle sconfitte subite negli ultimi mesi in Libia, Siria ed Iraq porta i jihadisti a tornare a preferire l’arma degli attentati ovunque possibile.

Entrato nel terzo anno di vita, il Califfato si trasforma: si indeboliscono le fattezze di Stato totalitario e tornano a prevalere le caratteristiche di gruppo terroristico. A prendere sul serio il discorso di al-Adnani è stato John Brennan, direttore della Cia, intervenendo davanti alla commissione Intelligence del Senato di Washington per affermare che «i successi ottenuti contro Isis sul fronte terrestre e finanziario non ne hanno indebolito la capacità di colpire a livello globale» e l’«aumento della pressione militare» contro le rimanenti roccaforti in Medio Oriente e Nordafrica «porterà ad un’intensificazione degli attacchi terroristici».

Questo è esattamente quanto avvenuto dall’inizio del corrente mese di Ramadan, considerato il più sacro dai musulmani perché coincide con la rivelazione del Corano e spesso usato in passato da organizzazioni e gruppi jihadisti – come Al Qaeda in Iraq di Abu Musab al-Zarqawi – per mettere a segno sanguinosi attacchi. Si è trattato di azioni di tipo diverso benché tutte portano al Califfato: ad Orlando, Florida, Omar Mateen ha massacrato 49 persone in un night club proclamandosi «soldato di Isis»; a Les Mureaux, Francia, Larossi Abdallah ha ucciso il vicecapo della polizia; ai confini fra Siria e Giordania i jihadisti hanno lanciato le prime autobomba contro truppe hashemite; in Libano hanno attaccato villaggi cristiani lungo la frontiera; all’aeroporto Atatürk di Istanbul un commando di origine centroasiatica ha ucciso 42 persone e venerdì notte c’è stato l’assalto al ristorante spagnolo di Dacca che ha causato almeno 20 vittime.

Se in Giordania, Libano e Bangladesh Isis ha rivendicato gli attacchi, in Turchia la pista porta nella stessa direzione mentre nel caso di Orlando e Les Mureaux è stata l’emittente «Al Bayan», voce del Califfato, a vantarsi della paternità delle azioni messe a segno da «lupi solitari». D’altra parte lo stesso capo dell’Fbi, James Comey, ha affermato che «Mateen ha subito l’influenza di informazioni digitali» ovvero la propaganda di Isis sul web, a cominciare proprio dal discorso di al-Adnani. Ecco perché il filo che unisce l’attuale offensiva di attacchi è quanto affermato dal leader jihadista siriano sul «Ramadan mese sacro della lotta durante il quale dobbiamo portare ovunque la morte contro gli infedeli». Confermando la capacità dei jihadisti di adattarsi alle mutate situazioni tattiche al fine di continuare comunque a colpire. E rafforzando l’ipotesi che se al-Baghdadi dovesse morire potrebbe essere proprio al-Adnani il suo successore. Ecco perché il brutale massacro di occidentali – italiani inclusi – fra i tavoli dell’Holey Artisan Bakery rivela l’entità di una minaccia globale: leader e miliziani jihadisti in ritirata da Palmira, Ramadi, Fallujah o Sirte non svaniscono nel nulla né si considerano sconfitti, ma vogliono uccidere «infedeli ed apostati» ovunque possono per perseguire il disegno apocalittico della sottomissione dell’intero Pianeta al Califfato.

(Maurizio Molinari, La Stampa 3 luglio 2016)