Elezioni in Turchia, il reportage di Marta Ottaviani per La Stampa

Comunque vada, due risultati importanti, Muharrem Ince, il candidato del Partito Repubblicano del Popolo (Chp) alla presidenza della repubblica turca, li ha già portati a casa. Il primo è stato quello di trasformarsi da sfidante scelto a caso e di fretta in uomo della provvidenza. Il secondo è quello di aver fatto riscoprire a una parte di Turchia il suo orgoglio laico e la consapevolezza di avere un’opposizione reale allo strapotere di Recep Tayyip Erdogan. Ieri più che un ultimo comizio della campagna elettorale più corta ma intensa della storia recente del Paese è andata in scena una festa. 

La festa  

Ince di elettori in piazza ne aveva chiesti cinque milioni, con quel gusto per l’esagerazione che ai turchi piace tanto, anche se sulla spianata di Maltepe, nella parte asiatica di Istanbul, tutta quella gente non ci sta. Ma ne sono arrivati circa un milione, soprattutto giovani, con un entusiasmo che solo pochi mesi fa sarebbe stato impensabile. Un fiume di gente che ha attraversato un quartiere dominato dal partito di Erdogan, ripetutamente chiamato «hirsiz» ossia ladro. Un’affluenza, sotto il diluvio e in mezzo al traffico del sabato che, a differenza di quando i comizi li tiene Erdogan, non è stato bloccato, e che ha meravigliato anche i negozianti del quartiere. «Mai vista una cosa del genere – afferma Ibrahim, che vende abbigliamento sull’Atatürk Caddesi – Arriva gente da stamattina presto». 

«Questa volta siamo stanchi ed è l’ultima occasione che abbiamo per mettere fine all’era di Erdogan» dice Arzu, che fa la studentessa. Sulla fronte, come migliaia di altre persone, ha porta una fascia rossa con scritto «Atamiz izindeyiz», traducibile come «noi seguiamo il nostro Padre». Dove il «Padre» è sempre uno solo, Mustafa Kemal Atatürk, fondatore di quella nazione laica e moderna, che guardava all’Europa, ma che doveva rimanere profondamente turca. Del resto, il nazionalismo, è stato alla base della campagna elettorale di tutti i partiti, escluso quello curdo, per ovvi motivi.  

La patria  

Ince non ha certo fatto eccezione. Durante la sua campagna elettorale ha parlato spesso di quella cosa che per i turchi è fondamentale fino all’indispensabile: la patria. E anche ieri a Istanbul non li ha certo delusi. E mentre la gente urlava «Halk, hukuk, adalet» (popolo, legge, giustizia), Muharrem Ince, ex professore, madre velata e moglie biondo platino ha promesso una Turchia nuova. Che praticamente consiste nell’annullare tutti i provvedimenti presi da Erdogan dopo il golpe e anche quella riforma costituzionale che, se vince, gli darà un potere illimitato. «Se vincerò – ha detto Ince, che indossava un completo blu classico e una cravatta dove dominava il rosso, il colore della Turchia – toglierò lo Stato di emergenza, la magistratura tornerà indipendente». L’unico accenno del suo lungo discorso alla politica estera, Ince lo ha fatto sulla Siria. «Continueremo a combattere il terrorismo» ha detto, riferendosi al Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, ma ha aggiunto: «Mi impegno ad appuntare un ambasciatore in Siria entro 100 giorni. Quattro milioni di siriani (quelli che vivono in Turchia, ndr) torneranno nel loro Paese pacificato». 

L’affondo  

L’attacco più grosso a Erdogan, però lo ha fatto sul punto più debole al momento per il presidente in carica; l’economia, che è sempre stata il suo fiore all’occhiello. “Se vinco io – ha tuonato Ince che quanto a carisma ha dimostrato di saper reggere il confronto con il Reis – in Turchia arriverà un’atmosfera di fiducia. Il cambio sul dollaro e sull’euro scenderà. Se vinco io vinciamo tutti». 

La folla esulta, intona inni kemalisti, inizia a defluire nonostante i mezzi pubblici messi a disposizione dal comune di Istanbul per una manifestazione di queste proporzioni siano scarsi, soprattutto se paragonati all’organizzazione che precede i meeting del partito di Erdogan.  

«Questa è una giornata importante, abbiamo un nuovo leader» spiega soddisfatto Mustafa che sulle spalle ha la figlia, di appena tre anni «Erdogan è come Saddam e farà la fine di Saddam. Questa volta lo mandiamo a casa, anche se ci saranno dei brogli. Domani migliaia di cittadini vigileranno sulle urne, ci sarà anche chi dormirà in prossimità dei seggi». Vicino, un gruppo di giovani, urla «Mustafa Kemal Askeriyiz», siamo i soldati di Mustafa Kemal Atatürk. È proprio questo, l’unico particolare inquietante. Che questa Turchia laica ritrovata, ma ancora lontana da quella inclusiva di Gezi Parki, si scontri con quella del presidente Erdogan. Non alle urne, ma nelle strade. 

Marta Ottaviani, La Stampa 24 giugno 2018