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“Tripoli, bel suol d’amore. Sarai italiana al rombo del cannon!…Al vento africano che Tripoli assal già squillan le trombe, la marcia real. A Tripoli i turchi non regnano più: già il nostro vessillo issato è lassù…”. Sono i versi di una canzone scritta da Giovanni Corvetto (giornalista di cronaca giudiziaria de “La Stampa”di Torino).

La canzone infuocò di animo patriottico l’Italia dopo che, così si racconta, Alessandra Drudi, ovvero Gea della Garisenda, nome d’arte impostole da D’Annunzio, la cantò sulla scena del teatro Belbo di Torino nuda e avvolta in un drappo tricolore. Una curiosità che ci fa riflettere sul carattere di noi italiani, e particolarmente degli artisti, canzonettisti e giornalisti, consiste nel fatto che è sempre Giovanni Corvetto a scrivere i versi di una divertente canzoncina che nel 1914 ironizzava sulla neutralità dell’Italia nella prima grande guerra, barcamenandosi tra il dovere di fedeltà alla triplice alleanza e la scelta della triplice intesa. La canzoncina fu ripresa nel 1937 quando l’Italia fascista si avviò verso la neutralià nel primo anno della seconda guerra mondiale anche allora indecisa sul da farsi. I versi dicevano: “L’un dice, “Bella, vien con me a Berlino!” E l’altro, “Stella, io son parigino!” Io faccio a tutti un bell’inchino Preferisco già Oh ouì, jes, ja, ja La neutralità!”. Ma, forse, si trattava di una critica alle eterne indecisioni e non di un inno alla non belligeranza.

Ma torniamo a quel 19 ottobre del 1912. Gli italiani entrano a Tripoli, allora capitale della sola Tripolitania,  dopo una guerra contro la Turchia che aveva occupato quei territori anticipando le mosse della Francia. Una guerra durata un anno e che in Italia vide un larghissimo fronte di favorevoli alla guerra che accomunava i liberali, i nazionalisti, i cattolici (forse fu quello il primo momento in cui i cattolici ritornarono alla politica dopo le pronunce di Pio IX) e naturalmente i poteri forti dell’economia con in prima linea la Banca di Roma.

Tra gli interventisti persino il premio nobel per la pace Ernesto Teodoro Moneta e il poeta Giovanni Pascoli che esortava all’intervento chiamando alle armi “la grande proletaria” immaginando vaste terre da coltivare per i poveri contadini e braccianti italiani. Dall’altra parte non tutti i socialisti, Arturo Labriola fu favorevole all’intervento mentre Gaetano Salvemini, il primo a definire la Libia “uno scatolone di sabbia”, fu contrario ma senza punte oltranziste. I feroci oppositori alla guerra di Libia furono i repubblicani capeggiati da Pietro Nenni (sì, Nenni fu repubblicano quando questi issavano la bandiera nera), i sindacalisti rivoluzionari di Amadeo Bordiga e i giovani socialisti con alla testa Benito Mussolini. Nel corso dello sciopero generale del 14 ottobre a Forlì, Nenni e Mussolini saranno arrestati e reclusi alcuni mesi nel carcere di Bologna.

Intanto, la guerra contro la Turchia fu dichiarata con lo stratagemma di una nota diplomatica “ultimatum” il 29 settembre 1911 e le operazioni militari vennero affidate al più vecchio generale in servizio Carlo Caneva, ma in realtà si concluse favorevolmente per l’Italia solo grazie alla Marina  Militare che al solito era rimasta senza ordini precisi da parte dello stato maggiore ma che seppe darsi una sua automa strategia nel contrastare le forze turche. Fu così che il mattino del 2 ottobre 1911 dopo un forte cannoneggiamento delle postazioni turche di Tripoli, la flotta italiana agli ordini dell’ammiraglio Luigi Faravelli e grazie all’abile spedizione dei marinai incursori del capitano di vascello Umberto Cagni riuscì ad impadronirsi delle fortezze di Tripoli.

Ma dovrà passare un anno e interminabili battaglie a Tobruk, a Derna e nelle oasi, prima che il 19 Ottobre 1912, a seguito del trattato di pace di Losanna, la Turchia lascerà la Tripolitania e le truppe italiane entreranno ufficialmente a Tripoli e prenderanno possesso della città con alla testa il primo Governatore della Tripolitania e della Cirenaica Giovanni Battista Ameglio. Inizia una interminabile battaglia per sottomettere e unificare l’intero territorio libico.

Vi saranno lutti e tragedie per entrambi le parti. La ricchezza al nostro paese non arriverà perché il petrolio sarà trovato poco prima che gli italiani saranno miseramente scacciati lasciandosi alle spalle una fatica infinita per rendere “lo scatolone di sabbia” un posto dove poter vivere.

E ancora la Libia ci respinge e ci lambisce, ci raggiunge portandoci il peso  delle tragedie nel mare che fu “nostrum”. Rimane per noi il bel suol d’amore.

(Franco Seccia/com.unica, 19 ottobre 2015)