Il leader turco ha gestito in prima persona la risposta alla svolta americana. L’analisi di Marta Ottaviani (da La Stampa).

Recep Tayyip Erdogan con la decisione di riconoscere Gerusalemme est capitale della Palestina, corona un sogno che covava da tempo: ergersi a leader indiscusso della causa e soprattutto a condottiero del mondo islamico. Dove la Città Santa appare quasi più un mezzo per coronare un fine. Il Capo di Stato di Ankara ha sempre avuto un occhio di riguardo per questo argomento, già dai primi tempi della sua militanza in partiti spesso accusati di essere anti-sionisti. 

Il primo screzio ufficiale con Israele risale a oltre dieci anni fa, al 2006, quando con l’allora premier Ehud Olmert, entrò in polemica per alcuni lavori effettuati vicino alla Spianata delle Moschee, a Gerusalemme, che, secondo lui, rischiavano di danneggiare la moschea di Al-Aqsa. L’incidente si chiuse con l’invio di una squadra di tecnici turchi a controllare il cantiere. 

Fra il 2009 e il 2010, quando Erdogan ha consolidato il suo potere, la frattura con Israele si è fatta più profonda. L’operazione Piombo Fuso e l’assalto alla nave Mavi Marmara, che portava viveri sulla Striscia di Gaza ma che era finanziata da una Ong in odore di finanziamento a gruppi jihadisti, hanno allontanato i due alleati storici. Con Ankara, però, che sembrava non aspettare altro. Più o meno nello stesso periodo, infatti, le Primavere arabe hanno convinto Erdogan di poter essere non solo un grande leader per il suo Paese, ma per tutte le nazioni interessate dai movimenti di protesta. A fomentare questa ambizione, c’era anche la politica estera “neo-ottomana” o del buon vicinato, portata avanti dall’allora ministro degli Esteri di Ankara, Ahmet Davutoglu. L’eccessiva ambizione, le gestioni autonome delle crisi libica e siriana, hanno portato all’effetto contrario, con la Turchia costretta a richiamare l’ambasciatore da diversi Paesi, fra cui Israele e l’Egitto.

La Mezzaluna e Gerusalemme sembravano essersi riavvicinati, quando la decisione di Trump, di riconoscere la Città Santa come capitale dello Stato ebraico, ha riacceso ambizioni mai sopite. Da quel momento è iniziato un intenso scambio diplomatico, dove Erdogan, in poche ore, ha tenuto colloqui con tutti i principali leader dell’Oic, assumendo le redini della situazione e che hanno portato all’organizzazione della riunione d’urgenza di ieri, a Istanbul, nell’antica capitale ottomana e che torna, una volta per tutte, al centro della scena politica regionale. Una specie di incoronazione per il leader turco, che, oltre a un sapore panislamico, ne ha anche uno marcatamente anti-americano. Non solo Trump non ha mai dato ad Ankara rassicurazioni sulla lotta alla minoranza turca in Siria. A New-York è in corso un processo a Reza Zarrab, un businessman turco-iraniano, che sta raccontando alla giustizia Usa come la Mezzaluna abbia eluso per anni le sanzioni contro l’Iran e come ministri molto vicini al presidente turco abbiano tratto ingenti profitti da questi traffici illegali.

Marta Ottaviani, La Stampa 15 dicembre 2017