Bruxelles, la “Carmen” di Bizet-Tcherniakov rimonta i codici dell’opera in un nuovo linguaggio

Con la sua Carmen al Théâtre Royal de La Monnaie, Dmitri Tcherniakov non si limita a mettere in scena un classico: lo smonta pezzo per pezzo, lo reinventa come esperimento psico-teatrale e lo riconsegna al pubblico in una forma nuova, bruciante e destabilizzante. È una Carmen che disorienta e affascina, una parabola moderna e crudele sull’identità, il desiderio e la manipolazione, che conferma Tcherniakov tra le voci registiche più visionarie del nostro tempo.
La vicenda è traslata in un centro psicosociale, dove ciò che vediamo è una simulazione terapeutica: Carmen non è più una zingara, ma un personaggio fittizio, progettato per sollecitare la psiche del paziente-Don José. L’intera opera si svolge dentro una struttura anonima e claustrofobica, il cui grigiore funzionale si fa eco del disordine interiore del protagonista. Ogni atto è una fase di terapia, ogni scena una seduta, ogni gesto un passaggio nel labirinto della mente.
In questo impianto concettuale rigoroso e spiazzante, gli interpreti sono chiamati a un’impresa rarissima nel teatro musicale: recitare un ruolo consapevoli di recitare, oscillando costantemente tra immedesimazione e straniamento. In questo gioco di specchi, la performance di Stéphanie d’Oustrac si impone come un vertice assoluto. La sua Carmen è istintiva e intelligente, sensuale senza compiacimento, ambigua fino al cuore. La naturalezza con cui abita il ruolo – con uno sguardo che incanta e disarma, una voce scolpita nel gesto, un corpo che racconta la tensione prima ancora delle parole – la rende semplicemente perfetta, tanto nel phsyique du rôle quanto nella profondità attoriale: incarna l’eros come forza incompresa, viva e vulnerabile.
Accanto a lei, il Don José del tenore protagonista è una rivelazione. Il suo corpo potente e la sua presenza virile si fondono con una recitazione sfaccettata, capace di trasmettere fragilità e furore, desiderio e collasso psichico. Non c’è nulla di melodrammatico nella sua performance: ogni suono, ogni pausa, ogni sguardo è parte di un disegno interiore che segue la spirale del personaggio verso la rovina. La tensione vocale, ardente ma sempre trattenuta, è specchio di una lotta che si consuma sotto la pelle.
La direzione musicale di Nathalie Stutzmann aderisce con lucidità al progetto registico: niente folklore, niente concessioni all’esotico. L’orchestra cesella un tessuto teso, nervoso, dove ogni ombra armonica diventa parte della drammaturgia. La musica non accompagna, plasma. Non sottolinea, svela.
Scenografia e luci completano il quadro: la sala asettica creata da Tcherniakov è una “stanza dell’inconscio” in cui nulla è davvero finto, né davvero reale. I costumi contemporanei di Elena Zaitseva e le luci taglienti di Gleb Filshtinsky sospendono i personaggi in un presente disturbante, dove il tempo dell’opera è anche il nostro.
Questa Carmen non si guarda, si attraversa. È un’esperienza emotiva e intellettuale che frantuma i codici della lirica e li rimonta in un nuovo linguaggio, urgente e necessario. È un rituale psichico più che uno spettacolo. Una discesa nella complessità umana che ci riguarda, ci scuote e, in un certo senso, ci cura.
Un’opera di riferimento per il teatro del XXI secolo. Un capolavoro.
Giovanni Zambito, com.unica 9 giugno 2025