C’è un momento, ogni tanto, in cui la realtà fa un salto imprevisto e tutto ciò che sembrava saldo si incrina. È successo a Claudia Sarritzu, giornalista brillante, voce critica, testarda e coraggiosa, che da ben diciassette anni raccontava il mondo anche attraverso il suo profilo Facebook. Uno spazio digitale che era non solo un diario virtuale, ma comprendeva un archivio esistenziale di pensieri, interviste, brani di libri, indignazioni, link, fotografie, piccoli atti di resistenza quotidiana. Diciassette anni, poi, in un attimo, il silenzio, Meta ha disattivato il suo account. Non un avviso, non una spiegazione convincente. Nessuna possibilità di recupero, nessun contraddittorio. Tutto cancellato. Come se non fosse mai esistita. Il motivo? Le sue prese di posizione quotidiane sul massacro di Gaza ad opera dell’esercito israeliano. Parole forti, indignate, che raccontano l’orrore di una guerra che non concede tregua, che moltiplica le vittime giorno dopo giorno, soprattutto tra i più fragili: i bambini, le madri, i civili intrappolati in un inferno senza uscita.

Non è necessario condividere tutto ciò che Claudia Sarritzu scriveva. Ma non è proprio questo il punto: la libertà non esiste per chi dice ciò che ci rassicura. Esiste, e ha valore, quando protegge chi disturba, chi ci mette in crisi, chi si ostina a guardare laddove preferiremmo distogliere lo sguardo. Cancellare quella voce, come è stato fatto, non è solo un atto brutale nei confronti di una persona ma un colpo inferto a tutti, un segnale decisamente inquietante.

Oggi viviamo in un tempo in cui le piattaforme digitali non sono più strumenti neutri. Sono arene politiche, luoghi dove si gioca la partita delle libertà. E in cui, sempre più spesso, chi dissente viene spinto verso i margini, o addirittura eliminato dalla scena. La censura oggi non ha   quindi  più il volto del censore con la penna rossa ma quello di un algoritmo opaco, di una policy ambigua, di un “violazione delle linee guida” che può voler dire tutto e niente. Il caso di Claudia Sarritzu non è un’eccezione. È un segnale. E arriva in un momento storico in cui le libertà che credevamo acquisite vengono messe in discussione su scala globale. L’avvento di Donald Trump alla Casa Bianca ha accelerato un processo in cui si assiste alla lenta ma costante erosione degli spazi democratici. Intorno all’uomo dalla chioma arancione si muove un gruppo di potere che guarda alla libertà come a un ostacolo, un fastidio da ridurre, controllare, zittire. Alla base dell’ideologia populista e reazionaria del cosiddetto movimento MAGA c’è una visione del mondo in cui il potere si concentra nelle mani di pochi, in cui la verità è una merce da manipolare, in cui la tecnologia diventa un’arma di controllo. E i grandi attori del web — da Elon Musk a Mark Zuckerberg — sembrano sempre più disposti ad assecondare questo paradigma, in cambio di immunità, potere e influenza.

Meta, con la cancellazione del profilo di Claudia Sarritzu, si è allineata a questa logica. Non è un caso isolato, ma una crepa nel tessuto stesso della democrazia. Una società libera non cancella le voci critiche. Le ascolta. Le sopporta. Anche quando fanno male. Anche quando ci mettono davanti allo specchio delle nostre responsabilità collettive. In Italia, forse, questa consapevolezza tarda ad arrivare. Siamo ancora convinti che la libertà d’espressione sia intoccabile. Ma i fatti ci raccontano altro. Il potere, oggi, si esercita nel silenzio. Con un clic. Con una disconnessione. Con un algoritmo che decide chi resta e chi scompare.

A Claudia Sarritzu va la nostra piena solidarietà. Ma serve anche una riflessione più ampia, collettiva, su che cosa vogliamo essere come società. Se vogliamo ancora difendere il diritto a dissentire, a raccontare, a gridare contro l’ingiustizia. O se siamo disposti a lasciar fare agli algoritmi, ai nuovi padroni dell’informazione, ai custodi invisibili della “comunità”, il compito di decidere cosa è accettabile e cosa no.

Sebastiano Catte, com.unica 2 giugno 2025

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