Il mister della Roma si racconta in una lunga intervista a partire dall’inizio del percorso che lo ha condotto a diventare uno dei più grandi allenatori della storia del calcio

Da due anni alla guida della Roma dopo aver allenato e vinto ventiquattro trofei in quattro paesi europei, José Mourinho ha rilasciato una lunga intervista al blog dell’Adidas (in lingua inglese) in cui ha raccontato la genesi della sua carriera, ha spiegato la sua visione della leadership e il ruolo centrale della comunicazione in un allenatore di successo.

Mourinho ha esordito spiegando come proprio il suo approccio alla comunicazione e il suo essere poliglotta (parla sei lingue) gli abbiano aperto la strada verso i più grandi traguardi. L’occasione per José è arrivata quando, da ragazzo, non ancora trentenne, si è trovato a fare da assistente a Sir Bobby Robson, il leggendario tecnico inglese che nel 1992 allenava lo Sporting Lisbona. Pur essendo all’epoca uno dei più grandi tecnici in circolazione, Robson aveva una lacuna evidente quando accettò di allenare in Portogallo: sapeva parlare solo inglese. José capì che, dal punto di vista linguistico, Sir Bobby era in difficoltà e si fece avanti per abbattere la barriera della comunicazione proponendosi come interprete. Quindi è chiaro che fin dall’inizio della sua carriera, José Mourinho ha dato un valore incredibile alla capacità di comunicare: “Non è possibile essere un allenatore di calcio di alto livello senza parlare diverse lingue”. E aggiunge: “Il calcio è diventato universale. Nello spogliatoio ci sono ragazzi di molte nazionalità diverse e naturalmente bisogna imparare la lingua madre del Paese in cui ci si trova. Alla fine, per avere più empatia e per comunicare meglio con le persone con cui lavori, devi essere davvero bravo in più lingue”. Nel corso dell’intervista ci tiene a ricordare anche la preziosa esperienza come insegnante, in particolare quella a bambini con la sindrome di Down: “un’esperienza incredibile che mi ha fatto capire tante cose”.

“Dopo aver lavorato con Sir Bobby Robson in Portogallo – ha proseguito – nel 1996 sono andato con lui a Barcellona, che per un ragazzo giovane come me è stata un’esperienza davvero unica, fantastica.” In seguito ha svolto attività di assistente del tecnico olandese Louis Van Gaal, un allenatore che aveva una visione del calcio molto lontana da quella di Sir Bobby, e questo gli ha permesso di conoscere da vicino due filosofie del tutto diverse e due stili di leadership vincenti. Sia Sir Bobby Robson che Louis Van Gaal avevano le loro formule di successo distinte e ben collaudate. L’inglese, che ha portato la sua nazione alle semifinali dei Mondiali del 1990 e ha vinto la Coppa UEFA con l’Ipswich, era un grande tattico ma costruiva il suo gioco intorno ai giocatori. L’olandese, soprannominato “Tulipano di ferro,” aveva invece uno stile di allenamento più orientato al gioco di posizione.

Josè Mourinho ha potuto così attingere a piene mani da due maestri di quel livello ma ha sviluppato presto uno stile proprio, originale di allenatore. E oggi ha le idee molto chiare sul quello che deve essere il suo ruolo: “Devi avere una forte personalità per dire: ‘ok, io sono il capo, io prendo le decisioni’. Questo non è negoziabile. Se le sessioni di allenamento iniziano alle 10 del mattino, non aspetto un solo minuto. Anche se sei Diego Maradona, che non ho mai avuto il piacere o l’onore di allenare, iniziare alle 10 è iniziare alle 10. La squadra è la cosa più importante. Anche se sei il miglior giocatore del mondo. Un giocatore con lo status più grande del club: la squadra è la cosa più importante. Ognuno deve seguire le regole e mostrare il rispetto per i colleghi. Come allenatore, devi essere morbido e forte. Forse soft non è la parola giusta – devi essere aperto, molto aperto a ciò che pensano i giocatori, a ciò che i giocatori sentono – e non solo attenerti alle tue idee, perché lavori con un gruppo. Il gruppo deve avere una voce; ha bisogno di avere un’opinione, ha bisogno di condividere. E devi essere aperto con i giocatori per farlo funzionare come una squadra.”

Molteplici i temi toccati dal tecnico portoghese durante l’intervista. Sull’importanza dell’equilibrio ad esempio: “È qualcosa che ho imparato molto con l’esperienza. Penso che più esperienza hai, più sei equilibrato e i giocatori ti guardano e vedono una roccia, ti vedono come qualcuno di cui possono fidarsi. Empatia significa tutti insieme nello stesso progetto. Un club è fatto di molte persone. Proprietari, direttori, allenatori, giocatori. Tutti. E l’empatia per me significa che tutti stanno andando nella stessa direzione”. E quanto alla chiave del successo è molto netto: “Direi di prepararvi al meglio. Non abbiate fretta, perché è molto difficile. Quando accetti il tuo primo lavoro da allenatore, devi essere pronto. Se non sei pronto, alla stessa velocità con cui hai ottenuto il lavoro di allenatore lo perderai”. Infine sul suo concetto di vittoria: “Quando vedo i colleghi che combattono per non retrocedere e riescono a mantenere la loro squadra nella divisione, per me, questo è vincere. Vincere non significa necessariamente essere il ragazzo che solleva la coppa. Vincere non significa portare a casa una medaglia o un trofeo. La cosa più importante nel nostro sport è vincere e non vendere la filosofia. Non bisogna vendere scuse, ma essere un vincitore”.

[Qui l’intervista integrale]

com.unica, 20 ottobre 2023