Nelle parole del dissidente la constatazione del clima plumbeo che si respira in Russia, come ai tempi dei processi-farsa di Stalin. L’appello per la sua scarcerazione da parte di attivisti e intellettuali

Riportiamo il discorso che l’oppositore russo Vladimir Kara-Murza (collaboratore di Global Opinions per The Post e storico) ha pronunciato lunedì scorso, nel corso dell’ultima sessione del processo che lo vede sul banco degli imputati per diffusione di informazioni false sull’esercito russo. Kara-Murza, sopravvissuto a due tentativi di avvelenamento nel 2015 e nel 2017, non era in Russia quando Vladimir Putin dichiarò l’inizio dell’invasione dell’Ucraina. È tornato in patria per protestare contro la guerra ed è stato subito arrestato. Il pubblico ministero del processo-farsa ha chiesto per lui 25 anni di carcere.

Le accuse del tutto infondate e la sentenza richiesta sono la prova che la Russia di oggi sta tornando alle pratiche del terrore politico messo in pratica ai tempi di Stalin. “Quel terrore contro il dissenso e la sua stessa gente è costato alla Russia centinaia di migliaia di vite nel secolo scorso” si può leggere in un appello pubblicato sulla Novaya Gazeta Europe – il giornale del premio Nobel per la Pace Dmitrij Muratov che ora opera in esilio dopo la chiusura imposta dal Cremlino – e sottoscritto da alcuni giornalisti e intellettuali per chiedere la scarcerazione di Kara-Murza. “Questo terrore – proseguono i firmatari – è iniziato con processi farsa di oppositori politici e dissidenti, e si è concluso con esecuzioni di massa e imprigionamento di comuni cittadini, compresi coloro che hanno accolto con favore i primi processi farsa e sono stati coinvolti nell’organizzazione di quelli.”

Membri del tribunale: ero sicuro, dopo due decenni trascorsi nella politica russa, dopo tutto quello che ho visto e vissuto, che nulla potesse più sorprendermi. Devo ammettere che mi sbagliavo. Sono rimasto sorpreso dalla misura in cui il mio processo, nella sua segretezza e nel disprezzo per le norme legali, ha superato persino i “processi” dei dissidenti sovietici negli anni ’60 e ’70. Senza contare l’ asprezza della pena chiesta dall’accusa o le chiacchiere sui “nemici dello Stato”. In tal senso, siamo andati oltre gli anni ’70, fino agli anni ’30 . Per me, come storico, questa è un’occasione di riflessione.

A un certo punto, durante la mia testimonianza, il giudice che presiedeva il processo mi ha ricordato che una delle circostanze attenuanti era “il rimorso per ciò che l’imputato ha fatto”. E benché ci sia poco di divertente nella mia situazione, non ho potuto fare a meno di sorridere: il criminale, ovviamente, deve pentirsi delle sue azioni. Sono in carcere per le mie idee politiche. Per aver manifestato le mie opinioni contro la guerra in Ucraina. Per aver lottato per molti anni contro la dittatura di Vladimir Putin. Per aver facilitato l’adozione di sanzioni internazionali personali nell’ambito del Magnitsky act contro chi vìola i diritti umani.

Non solo non mi pento di tutto questo, ma ne vado fiero. Sono orgoglioso che Boris Nemtsov mi abbia avvicinato alla politica. E spero che non si vergogni di me. Sottoscrivo ogni parola che ho pronunciato e ogni parola di cui sono stato accusato da questo tribunale. Mi rimprovero solo una cosa: che negli anni della mia attività politica non sono riuscito a convincere un numero sufficiente di connazionali e di politici dei paesi democratici del pericolo che l’attuale regime del Cremlino rappresenta per la Russia e per il mondo. Oggi questo è evidente a tutti, ma a un prezzo terribile: il prezzo della guerra.

Nelle loro ultime dichiarazioni al tribunale, gli imputati di solito chiedono l’assoluzione. Per una persona che non ha commesso alcun crimine, l’assoluzione sarebbe l’unico verdetto giusto. Ma io non chiedo nulla a questa corte. Conosco il verdetto. L’ho capito un anno fa, quando ho visto nello specchietto retrovisore persone in uniforme nera e con maschere nere che correvano dietro alla mia auto. Questo è il prezzo da pagare per parlare in Russia oggi.

Ma so anche che arriverà il giorno in cui le tenebre sul nostro paese si dissolveranno. Il giorno in cui il nero si chiamerà nero e il bianco si chiamerà bianco; il giorno in cui  a livello ufficiale si riconoscerà che due per due fa ancora quattro; il giorno in cui una guerra si chiamerà guerra e un usurpatore usurpatore; e quando saranno riconosciuti come criminali  coloro che hanno acceso e scatenato questa guerra, piuttosto che coloro che hanno cercato di fermarla. 

Questo giorno arriverà inevitabilmente come la primavera che segue anche l’inverno più freddo. E allora la nostra società aprirà gli occhi e sarà inorridita dai terribili crimini commessi per suo conto. Da questa consapevolezza, da questa riflessione, inizierà il lungo, difficile ma vitale cammino verso il recupero e la restaurazione della Russia, il suo ritorno alla comunità dei paesi civili. Anche oggi, anche nell’oscurità che ci circonda, anche seduto in questa gabbia, amo il mio paese e credo nel nostro popolo. Credo che possiamo percorrere questo cammino.

com.unica, 12 aprile 2023

*Foto: Alexandra Astakhova

Fonte Washington Post