Carol Oates: “È il talento più importante per diventare scrittore”. Da “La Stampa” un ritratto di Antonio Monda

Quando aveva diciott’anni, Jonathan Safran Foer si iscrisse all’Università di Princeton per studiare filosofia, ma sin dai primi giorni si rese conto di avere una passione per la scrittura che, nel giro di poco tempo, si trasformò in una vera e propria necessità. Decise quindi di seguire i corsi di scrittura creativa di Joyce Carol Oates, la quale ne osservò con attenzione la maturazione, e un giorno gli disse: «Tu hai il talento più importante per diventare uno scrittore, l’energia».

È proprio questo l’aspetto che colpisce maggiormente, quando lo incontri la prima volta: un’energia nascosta in un atteggiamento che appare freddo, ma in realtà è lucido, penetrante e sottilmente ironico. Ovviamente il talento non è legato solo all’energia: Jonathan ha una capacità impressionante di leggere il cuore di ogni persona, argomento e situazione. Nella sua scrittura, come anche nella sua personalità, la superficie algida nasconde un animo romantico: «Se nel mondo non esiste l’amore, costruiremo un mondo nuovo», ha scritto nel primo libro, per rivelare subito dopo un sorprendente anelito di calore: «Amami perché l’amore non esiste».

È diventato una star della letteratura quando aveva soltanto 25 anni grazie a Ogni cosa è illuminata, ispirato alla tragica vicenda dei suoi nonni materni, e questa popolarità ne condiziona tuttora ogni scelta esistenziale. Non è certo il primo romanziere ad aver conquistato il successo così giovane, ma nel suo caso si creò immediatamente l’aspettativa che si ha nei confronti di un genio, generando gelosie e meschinità. Jonathan è il primo a vedere i rischi di questa situazione, e la naturale ritrosia ad apparire, unita all’autodifesa naturale basata sul distacco, ha paradossalmente amplificato il problema: in quel periodo diceva «non puoi proteggerti dalla tristezza senza proteggerti anche dalla felicità».

Per comprenderne psicologia e scelte esistenziali è illuminante ricordare che è nato a Washington in una famiglia dalle solide radici intellettuali: il padre Albert è stato il presidente dell’Antitrust americana, mentre la madre Ester, figlia di sopravvissuti all’Olocausto, è una colonna portante di una delle principali istituzioni culturali della capitale: la Sixth and I Historic Synagogue.

Si tratta di un luogo che ha ospitato eventi con Toni Morrison, Elie Wiesel, VS Naipaul e Kazuo Ishiguro, oltre a segretari di Stato di entrambi i partiti: da Madeleine Albright a Colin Powell, da Condoleeza Rice a Hillary Clinton. Jonathan ha fatto tesoro di questo privilegio, ed è stato educato a confrontarsi con personalità dalle idee lontano dalle proprie. Ha due fratelli che hanno conquistato autonomamente il successo nel mondo culturale: Franklin è stato direttore del New Atlantic, mentre Joshua, dopo aver vinto il campionato di memoria degli Stati Uniti, ha scritto Passeggiando sulla luna con Einstein: l’arte di ricordare tutto.

Anche nella vita sentimentale, Jonathan si è contraddistinto per relazioni celebri: è stato sposato per dieci anni con Nicole Krauss, a sua volta scrittrice di grande talento, con la quale ha avuto due figli, a cui è seguita una relazione molto pubblicizzata con Michelle Williams. Rivelatrici ancora una volta le parole dei primi due libri: «Mi sei mancata anche quando stavo con te. Questo il mio problema. Mi manca quello che ho già, e mi circondo di cose che mancano». O «questo è l’amore: quando ti accorgi dell’assenza di qualcuno e odi quell’assenza più di ogni altra cosa, perfino più di quanto ami la sua presenza».

Ha compiuto da poco 43 anni, e vive con una compagna in una gigantesca villa degli anni 20 a Brooklyn: ciò che colpisce non è tanto lo splendore, quanto la dimensione di una residenza che potrebbe ospitare almeno una dozzina di persone. È un elemento che aiuta a comprendere una personalità che protegge costantemente qualcosa di inespresso, con il rischio di intimidire l’interlocutore e raffreddare le relazioni. Entrando un po’ in intimità si scopre che in realtà è un uomo capace di gesti di generosità autentica come di inaspettate confidenze intime, nelle quali si mette improvvisamente a nudo. «Ho così paura di perdere qualcosa che rifiuto di amare ogni cosa», disse una volta, ed è illuminante mettere questa frase in parallelo con quanto ha scritto: «La mia storia è la storia di tutti coloro che non ho mai incontrato» o «è doloroso scoprire che ci vuole tutta la vita per imparare a vivere».

Il clamoroso successo internazionale di Ogni cosa è illuminata è stato amplificato dall’adattamento cinematografico, il che si è ripetuto anche con Molto forte, incredibilmente vicino, libro che ha moltiplicato gli entusiasti e i denigratori. In quel periodo Jonathan ha tentato di diradare le apparizioni pubbliche e i commenti che gli venivano chiesti su qualunque argomento, ma ha riconquistato prepotentemente il centro del palcoscenico quando ha dato alle stampe Se niente importa – Perché mangiamo animali?

Vegetariano da quando aveva dieci anni, ha nei confronti di questa scelta un approccio quasi religioso. Il saggio trovò un ammiratore incondizionato in John Coetzee, il quale dichiarò: «Gli orrori quotidiani dell’allevamento intensivo sono raccontati in modo così vivido che chiunque, dopo aver letto il libro di Foer, continuasse a consumare i prodotti industriali dovrebbe essere senza cuore o senza raziocinio».

C’è un altro elemento che risalta nel libro: un’ironia amara e a tratti sconsolata, che è ricomparsa recentemente in un libro altrettanto bello e importante, Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Della cultura vegetariana, Jonathan è insieme profeta e apostolo, ed è illuminante ricordare un brano di dialogo con la nonna per sottolineare come gli elementi più intimi e dolorosi della sua tradizione vadano di pari passo con la sua scelta alimentare:

«Moltissime persone», dice la nonna, «morirono proprio alla fine, e io non sapevo se avrei resistito un altro giorno. Un contadino, un russo, Dio lo benedica, vide in che stato ero, entrò in casa e ne uscì con un pezzo di carne per me». «Ti salvò la vita». «Non lo mangiai, era maiale». «Perché non era kosher?». «Certo». «Ma neppure per salvarti la vita?». «Se niente importa, non c’è niente da salvare».

Jonathan lotta contro il pessimismo, e una sua famosa battuta dice «le canzoni sono tristi come colui che ascolta». Tuttavia questo passaggio raggelante evidenzia un altro tema centrale del suo itinerario personale e artistico: l’idea di salvezza in relazione al mistero della trascendenza.

Non è certo un caso che abbia realizzato assieme a Nathan Englander una versione della Haggadah, il testo tradizionale che si recita nella Pasqua ebraica, e nei suoi scritti più recenti acquista uno spazio sempre maggiore la riflessione su un codice morale, che per il suo popolo è indissolubilmente religioso. Sono i temi di Eccomi, il suo libro più alto, maturo e spiccatamente autobiografico, che prende il titolo dalla risposta che diede Abramo al Padreterno quando gli venne chiesto di sacrificare il figlio Isacco. A dispetto della lucidità scientifica, e della formidabile capacità analitica, sembra che in questo momento della sua vita Jonathan sia alla ricerca di risposte da dare in prima persona, con la consapevolezza che la cosa più difficile da fare, nell’intera esistenza, è sapere ascoltare le domande.

Antonio Monda, La Stampa 1 giugno 2020