L’Unione europea, il malessere francese, il ’68, il Muro di Berlino, la libertà di parola minacciata. A colloquio con il filosofo francese (da Il Foglio)

“L’Europa è il massimo della diversità nel minimo dello spazio, la nazione è una creazione europea e le due cose vanno insieme. Ecco perché, a differenza dei sovranisti, non oppongo la nazione all’Europa, anche se l’attuale stato dell’Unione europea mi ispira sentimenti contrastanti. L’Europa è definita da opere, piazze, monumenti, paesaggi, costumi, un certo modo di essere e di sentire, non è solo una costruzione, ma anche una civiltà che merita tutta la nostra cura”. Così parla al Foglio Alain Finkielkraut, il filosofo e intellettuale francese attratto dal “campo minato”, che ha dato il titolo al libro che due anni fa scrisse con Élisabeth de Fontenay.

Finkielkraut continua a ricordare che le società occidentali sono “preoccupate per la sopravvivenza della propria comunità storica”; non trova spazio alla tavola imbandita di una postmodernità sempre più inospitale e incapace di capire che l’uomo ha bisogno di una casa; e non si accontenta dei dati acquisiti dalla sinistra, il vezzo di considerare “cultura” ogni fenomeno nuovo né la litania dei dominati contro i dominanti. “La fragilità non è appannaggio della sola terra, ma anche della civiltà”, ci spiega, mentre in Francia si continua a parlare del suo nuovo libro per Gallimard, “À la première personne”.

Fin dalla sua “Sconfitta del pensiero” (1987), che segnò la sua svolta antimoderna, Alain Finkielkraut, già docente all’École polytechnique e che ora siede tra i quaranta “immortali” dell’Académie française, si è inimicato la cultura prigioniera della dittatura dell’opinione pubblica e “il progressismo che ha sostituito al vecchio schema del peccato originale da cui discendono tutte le disgrazie, il concetto di ‘crimine originale’”. Non si arrende a una Francia “condannata a rigiocare, senza sosta, alla rivoluzione, a rifare il processo a Luigi XVI e a tagliargli la testa”. “È l’uomo che non sa come fare a non reagire”, nelle parole del suo vecchio amico il grande scrittore ceco Milan Kundera, cui Finkielkraut ha appena dedicato il suo nuovo libro, che si apre così: “Dacché, nonostante i miei sforzi per rallentare il galoppo del tempo, diventerò irrimediabilmente vecchio, visto che, lo confesso, epiteti ostili adornano spesso il mio nome, mi è sembrato il momento di ripercorrere il mio percorso senza compiacimenti o fughe”.

Ci sono bordate contro il Sessantotto: “Nel Sessantotto volevamo acciuffare la nostra occasione: eravamo certi di essere in un periodo di lotta finale, per questo abbiamo sventolato slogan assurdi del tipo ‘Polizia=SS’. Vivevamo all’ombra della Resistenza, avevamo smesso di imitare i padri, per imitarci a vicenda”. Su Israele: “Questo ‘mai più’ era quello dei miei genitori e di tutti i sopravvissuti, che abbiano scelto o meno di installarsi in Israele. L’esistenza di questo paese li consolava, li tranquillizzava, era un balsamo per il loro cuore. Non esigevano il pentimento, non avevano bisogno di un grande mea culpa nazionale, volevano soltanto essere capiti e che si permettesse a Israele di esistere”. Sull’Europa: “L’Europa post-hitleriana ha scelto di diventare una costruzione fondata su norme, procedure e valuta, soltanto valuta, senza diventare una civiltà. Se pensiamo a noi stessi come a una civiltà, è evidente che esiste un modo di vivere europeo, che ci sono campagne europee che non assomigliano a paesaggi americani, che esistono forme di diversità in Europa e in Francia che sono prerogative di questa specifica civiltà”.

Ispirato da Charles Péguy, Finkielkraut da anni difende l’affiliazione carnale alla Francia, spingendo lo storico Daniel Lindenberg a inserirlo fra i “nuovi reazionari”. E’ accusato di fare dell’immigrazione la principale responsabile della crisi d’identità che la Francia sta attraversando e di contribuire alla “lepenizzazione” delle menti. Figlio di ebrei polacchi sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti, Finkielkraut si autodefinisce “conservatore, liberale e socialista perché sono per l’iniziativa, la ridistribuzione e la conservazione dell’essenziale”. In Italia è noto per libri come “Un cuore intelligente” (Adelphi), “L’identità infelice” (Guanda) e “L’umanità perduta” (Lindau).

“Non credo nell’utopia, in un futuro migliore. Penso al contrario che molte cose siano sempre più fragili. Quindi mi sono mosso nella direzione di preservare la cultura, la nazione, la bellezza del mondo contro la devastazione”. “Finkielkraut è un uomo dell’Illuminismo sopraffatto dal fatto che il mondo della ragione si sta fratturando”, dice la giornalista e polemista Élisabeth Lévy, che anima con lui un programma su RCJ (una radio della comunità ebraica). Cresciuto con i grandi della cultura francese, da Michel Foucault a Emmanuel Lévinas, a colloquio con il Foglio Finkielkraut parla della grande angoscia francese.

“Ci sono molti aspetti del malaise francese”, ci spiega. “La Francia oggi è un paese diviso, frantumato, parliamo molto della ‘diversità’, ma questa diversità è una menzogna. Siamo violenti, le forze di polizia sono intrappolate nei famosi ‘quartieri difficili’, i territori perduti della repubblica. Gérard Collomb, l’ex ministro dell’Interno di Emmanuel Macron, prima di dimettersi ha detto che in Francia le comunità erano fianco a fianco, oggi sono faccia a faccia. E che ci sarà una guerra civile. Perché, invece di cercare l’assimilazione e l’integrazione, la Francia sta andando verso la disintegrazione. Il diritto alla continuità storica è oggi in pericolo e sotto attacco. Alcuni, in nome del principio dell’ospitalità, vogliono sostituire la civiltà europea e la sua componente francese con una società multiculturale. Jérôme Fourquet in un libro ha parlato di un ‘arcipelago francese’, mentre l’inglese David Goodhart dei ‘somewhere’, da qualche parte, e degli ‘anywhere’, ovunque. Non è soltanto il cattolicesimo, ma è tutta la civiltà francese a essere sotto attacco da più parti, a non essere difesa. Prendiamo per esempio il problema del velo. Gran parte dei ministri, come quello dell’Istruzione Jean-Michel Blanquer, hanno detto che non è accettabile. Il 71 per cento dei francesi è d’accordo, perché non è solo una questione di laicità. La presenza delle donne nella sfera pubblica è parte stessa della storia francese. Quello che non voglio vedere accadere è la società della mescolanza universale profetizzata da Chateaubriand alla fine delle ‘Memorie dall’oltretomba’. C’è un diritto alla continuità storica e culturale che è messo in discussione dagli immigrati e dalle élite. C’è paura di essere attaccati in quanto razzisti”.

Nel 1985, la sua difesa dei dissidenti sovietici lo portò all’arresto in compagnia della giornalista Dominique Nora con l’accusa di “attività sovversive” e di far parte di “una organizzazione sionista internazionale”. Intervenne la Francia per farli ripartire da Berlino est. “Dopo che Francis Fukuyama pubblicò la ‘Fine della storia’, Samuel P. Huntington scrisse ‘Lo scontro di civiltà’”, ci spiega Alain Finkielkraut. “Huntington aveva ragione e Fukuyama torto. Adesso questo scontro di civiltà è molto evidente. In Europa c’è una nuova divisione. La caduta del muro di Berlino ha sancito la fine del comunismo, ma i paesi orientali non hanno reagito come i paesi occidentali, sono rimasti legati alla propria identità, vedono l’Europa come una civiltà e non soltanto come una costruzione giuridica e politica. Il Sessantotto in Europa fu il Maggio parigino, il Sessantotto a Praga fu molto diverso. Noi ci volevamo emancipare dal vecchio mondo borghese. È allora che tutto è iniziato”.

Forse l’intellettuale che è oggi sarebbe stato maltrattato nel Sessantotto. A differenza di altri pensatori conservatori, Finkielkraut non vuole smantellare l’Unione europea. “L’Europa non dovrebbe essere abbandonata o distrutta, ma cambiata dall’interno. Credo nella sovranità dello stato, ma anche nell’associazione degli stati europei. Siamo europei. L’Europa è parte della nostra identità. Ma non siamo soddisfatti del modo in cui l’Unione europea sta procedendo”. Nei giorni scorsi, Finkielkraut ha criticato un altro intellò francese conservatore, Eric Zemmour: “Sono molto a disagio con il realismo assoluto che va rivendicando”. E questo riguarda anche l’Europa: “Il direttore dell’agenzia di stampa di Budapest, invasa dai carri armati sovietici, inviò un telex in tutto il mondo, dicendo: ‘Moriremo per l’Ungheria e per l’Europa’”.

Tutta Europa ribolle oggi di antisemitismo e lo stesso Finkielkraut è stato aggredito per strada a Parigi da un salafita durante una manifestazione dei gilet gialli al grido di “bastardo”, “la Francia è nostra” e “sionista di merda”. “Gli insulti antisemiti a cui è stato sottoposto Finkielkraut sono la negazione assoluta di ciò che siamo e di ciò che ci rende una grande nazione. Non lo tollereremo”, aveva twittato il presidente Emmanuel Macron.

“Il vecchio antisemitismo europeo non è morto e ho paura di quello che accade in molti paesi, anche in Italia”, ci spiega Finkielkraut. “In Francia è tutto diverso, c’è un antisemitismo islamico che non è riconosciuto dalla doxa di sinistra, perché i musulmani sono visti come le vittime dell’islamofobia, del razzismo, sono i ‘nuovi ebrei’. È un grande problema nel nostro paese. Il progressismo giustifica questo fenomeno”.

Ieri, sul Figaro, Finkielkraut ha firmato un appello a favore della libertà di espressione inibita violentemente in tante università francesi, da Bordeaux alla Sorbona, dove nelle ultime settimane due conferenze sul radicalismo islamico sono state annullate. L’ex presidente François Hollande era stato invitato all’Università di Lille a presentare il suo nuovo libro, “Répondre à la crise démocratique”, ma gli è stato impedito di parlare ed è stato portato via dalle forze dell’ordine. Lo scorso aprile, Finkielkraut doveva parlare all’Università Sciences Po di Parigi. Prima l’ateneo ha annunciato la cancellazione dell’evento, quindi la sua “delocalizzazione”, infine si è svolto come previsto ma dietro a uno spesso cordone di sicurezza. “Non possiamo accettare Finkielkraut e la sua retorica islamofoba, razzista, sessista e omofoba”, avevano detto i manifestanti di estrema sinistra.

“Il ruolo delle università è offrire uno spazio di confronto di idee che favorisca la riflessione e non uno spazio in cui si imponga il conformismo intellettuale”, recita l’appello sul Figaro di ieri firmato da Finkielkraut, dallo storico Georges Bensoussan e dal sociologo Philippe d’Iribarne, fra gli altri. “Devono anche favorire l’emergere del pensiero critico, che rende possibile resistere al dogmatismo, quel cancro del pensiero che impedisce ogni scoperta e che rende l’uomo schiavo. Non possiamo accettare che le nostre università rinuncino, per codardia, al ricatto ideologico e alle minacce liberticide”.

“È l’americanizzazione della Francia, che non è soltanto la Coca Cola o l’arte moderna, ma anche l’aggressione alla libertà di espressione”, dice Finkielkraut al Foglio. “Sono molto preoccupato. C’è una nuova intolleranza, un nuovo fanatismo. Sylviane Agacinski è stata appena bandita dall’Università di Bordeaux perché contraria alla maternità surrogata. Ora è considerata una nemica della democrazia. Perché la democrazia ora non è il dialogo civile, ma un processo irresistibile di egualitarizzazione universale, se non sei d’accordo allora sei un ostacolo alla democrazia e devi essere eliminato. È il paradosso della società aperta, un fanatismo democratico che è molto forte nelle università e dei media. Non sarà facile combatterlo e sarà una lunga battaglia”.

Nella miscellanea “Cahier”, in uscita il 21 novembre per la Nave di Teseo, Michel Houellebecq ha scritto che “l’Occidente è un’entità che sta scomparendo”, e sembra quasi rallegrarsene. Finkielkraut condivide l’analisi dell’amico, ma non le sue conclusioni, e al Foglio spiega: “L’Occidente ha ancora un grande significato, è l’area della civiltà, è stato identificato con il potere, oggi invece con la debolezza, con la debolezza della civiltà. E penso che sarà un disastro se l’occidente dovesse scomparire”. E parafrasando Saint-Exupéry, Finkielkraut si domanda: “Di ciò che ho amato, cosa rimarrà?”.

Giulio Meotti, Il Foglio 15 novembre 2019