Alcune riflessioni di Marcello Veneziani sui tabù che hanno inibito il giudizio storico sul fascismo

Ancora su Renzo De Felice. Quanti passi indietro ha fatto l’Italia e il giudizio storico, dai tempi e dai testi di De Felice ad oggi. Venuto da sinistra e dall’antifascismo, De Felice con la sua monumentale opera su Mussolini e con la sua meticolosa ricerca tra gli archivi, restituì il fascismo alla storia e all’Italia. Sulla base dei documenti, studiò il fascismo sul piano storico e non lo esorcizzò sul piano criminale. Dimostrò che non fu una malattia o un abominio, ma fa parte integrante della storia d’Italia e dell’autobiografia nazionale. Un giudizio storico che negli anni Ottanta conquistò il giudizio prevalente del nostro paese. Ma col passare degli anni siamo tornati indietro e in basso. E non a livello di opinione pubblica ma di istituzioni. De Felice oggi rischierebbe di passare per i tribunali e le commissioni ideologiche dell’inquisizione. Lo ha sconfessato perfino il mite Mattarella dicendo che il fascismo fu solo male, non ci furono lati positivi o interessanti. Fatica inutile, professore.

Ho davanti agli occhi un libro appena uscito, che conclude i cinque tomi degli Scritti giornalistici di Renzo De Felice. È curato da Giuseppe Parlato, che presiede la Fondazione Spirito-De Felice, e da Giuliana Podda, con prefazione di Gianni Scipione Rossi (Luni Editrice, pp.330, 25 euro). Lo abbiamo presentato qualche giorno fa a Rieti nella sua città natale. Vi appaiono gli ultimi interventi di De Felice, tra la fine degli anni ’80 e il 1996, anno della sua morte, ora avrebbe 90 anni. Il sottotitolo è eloquente: Facciamo storia, non moralismo” . E invece quel poco di storia che resta in giro oggi, è tutta dentro il moralismo, anzi è schiacciata tra moralismo e via giudiziaria. Perché dopo la condanna morale, scatta pure quella penale. Soprattutto in tema di fascismo e nazionalismo.

La storia la scrivono i vincitori ma contano solo le vittime. Vittime però selezionate da un pregiudizio morale e ideologico; tra le vittime molte sono presunte, a volte sono carnefici sconfitti. In questi interventi e interviste De Felice smonta i tabù che hanno inibito il giudizio storico sul fascismo. Li cito in estrema sintesi.

Primo tabù: è vietato dire che il fascismo ha goduto per tanti anni di grande consenso popolare, furono col fascismo i maggiori artisti e intellettuali del tempo, ed ebbe giudizi positivi dai più grandi statisti del suo tempo, spesso rispecchiando l’opinione pubblica mondiale. De Felice infranse quel tabù.

Secondo tabù: non si può dire che il fascismo fu un regime di modernizzazione, tra grandi opere e sviluppo, integrazione di giovani, donne, contadini ed operai. E De Felice infranse quel tabù.

Terzo tabù: non si può dire che il razzismo e l’antisemitismo furono estranei al fascismo sino all’alleanza con Hitler, dopo l’isolamento delle Sanzioni, e poi le sciagurate leggi razziali. E De Felice, anche in questi scritti, infrange quel tabù.

Quarto tabù: non si può dire che nazismo e fascismo furono due realtà distinte, non esiste la categoria “nazifascismo”, “inventata dalla propaganda politica per battere il comune nemico. Fu un’invenzione degli alleati, poi passò tra le parole della resistenza e di lì nel linguaggio comune”, come scrive De Felice.

Quinto tabù: non si può dire che le potenze occidentali spinsero Mussolini tra le braccia di Hitler, dopo che aveva vanamente tentato di porsi nel mezzo. E De Felice infranse questo tabù.

Sesto tabù: la repubblica sociale fu un freno e un cuscino per attutire il nazismo e le ritorsioni sugli italiani. Mussolini a Salò per De Felice fu più prigioniero che servo-alleato di Hitler (si legga “Salvate gli italiani. Mussolini contro Hitler”, di Alfio Caruso edito di recente da Neri Pozza).

Settimo tabù: la Resistenza fu fenomeno minoritario e non vinse la guerra col fascismo ma accompagnò la vittoria degli Alleati; il popolo non si schierò con la Resistenza, e anche dopo la guerra preferì la Dc non tanto per la sua ispirazione cristiana quanto per la sua percepita neutralità rispetto al fascismo e all’antifascismo. De Felice infranse anche questo tabù.

E infine, ottavo tabù, la partitocrazia nasce già con la Resistenza e col Cln, e con essa nasce quel tramonto della nazione di cui viviamo il penoso, trascinato epilogo. Non vado oltre a ricordare che metà Resistenza, se non di più, non fu combattuta in nome della libertà ma nel progetto di una dittatura del proletariato che aveva come modello l’Unione sovietica.

Vi pare poco? Oggi queste tesi sfiorano il reato d’opinione ma furono fondate su ineccepibili basi storiche e documentarie.

Peccato che De Felice non ebbe il tempo di approfondire gli eccidi dopo il ’43, lasciando che quel tabù fosse infranto da giornalisti, prima Pisanò, poi Pansa. E peccato che non avesse grande capacità di sintesi e di scrittura, oltre che di parola. Ma resta lo storico più credibile del fascismo, il biografo più affidabile di Mussolini; ebbe un’importante influenza civile e culturale, ma anche indirettamente politica, soprattutto negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta. Fu osteggiato e contestato (e in questo libro v’è traccia), gli lanciarono perfino una molotov sulla sua casa ma solo nei nostri anni il suo lavoro storico è stato calpestato e cancellato in modo rozzo e fazioso. L’Italia cammina col passo del gambero e più si allontana quella storia e più si torna al clima manicheo e ai suoi tabù. Da qui la nostalgia di Renzo De Felice.

Marcello Veneziani, La Verità 12 novembre 2019