Parla Annalisa Zanni, direttrice del Museo Poldi Pezzoli di Milano. L’intervista di Alain Elkann (La Stampa)

Annalisa Zanni ha dedicato la sua vita al Museo Poldi Pezzoli di Milano. Ha iniziato a lavorarci durante l’università negli Anni 70 e nel 1999 ne ha ottenuto la direzione. Nel 2011 ha ricevuto il riconoscimento più alto della città, l’Ambrogino d’Oro, per il lavoro di modernizzazione e promozione.

Come descriverebbe il museo?

«È una delle anime di Milano: chiunque entri nella casa e nel museo di Gian Giacomo Poldi Pezzoli intraprende un viaggio nella storia della città dal XIX secolo a oggi e nella storia del collezionismo privato».

Chi era Poldi Pezzoli?

«Visse dal 1822 al 1879. Suo nonno materno Gian Giacomo Trivulzio era un appassionato collezionista di libri che portò alla luce Dante pubblicando il Convivio. Sua nonna fu Beatrice Serbelloni che tenne un famoso salotto durante l’Illuminismo. I soldi provenivano dal padre, Giuseppe Poldi Pezzoli, un ricco possidente che aveva ereditato molte proprietà tra Bergamo e Parma».

In che cosa consiste la sua collezione?

«Ci sono due periodi e temi importanti, il primo è il patriottismo perché appoggiò gli insorti durante le Cinque giornate di Milano nel 1848. Pertanto dovette andare in esilio, prima in Svizzera e poi in tutta Europa. In Francia entrò in contatto con le nuove tendenze dell’architettura e per la sua casa si ispirò all’Hotel De Cluny e all’Hotel Des Thermes, con arredi e oggetti che rivelano il gusto per il passato. Tornato dall’esilio, dopo aver pagato una multa di 600 mila lire, mise in atto il suo progetto: riportare l’arte, la bellezza e il passato che sarebbero diventati un linguaggio comune per tutti gli italiani».

E cosa fece?

«Iniziò a collezionare. Intorno al 1850 si mise in contatto con gli artisti dell’Accademia di Brera e comprò molte loro opere. Poi abbandonò questo filone perché aveva scoperto l’arte antica e cominciò ad acquistare avidamente le straordinarie opere oggi esposte: per esempio la Madonna con Bambino di Andrea Mantegna, una delle prime opere a tempera su tela. O il Ritratto di giovane dama di Piero del Pollaiolo, simbolo del nostro museo, o la Musa Tersicore di Cosmè Tura, che faceva parte di una serie di affreschi del Palazzo Schifanoia di Ferrara. Poi c’è la famosa tavola che raffigura San Nicola da Tolentino di Piero della Francesca, parte di un polittico per l’altare maggiore della chiesa di Sant’Agostino a San Sepolcro. Più tardi, vi fu anche la Madonna del Libro e la Lamentazione di Botticelli».

Chi è il proprietario del museo oggi?

«Nel suo testamento del 1871, Gian Giacomo decise di dare a una fondazione la parte del palazzo con le opere e le aree che aveva affidato agli artisti e agli artigiani contemporanei per creare questa “residenza del passato”. Aveva creato una fondazione artistica, cedendo la casa in perpetuo per uso e beneficio pubblico. Era davvero un visionario, lasciò un fondo di 8.000 lire per coprire le spese e l’acquisto di nuove opere. Il Poldi Pezzoli non doveva rimanere chiuso».

Sono state acquistate molte nuove opere?

«All’inizio sì, con Canaletto e Guardi e opere d’arte decorativa, ma le due guerre mondiali ci hanno lasciato un’eredità svalutata. Oggi il museo è ancora una fondazione artistica riconosciuta come ente di interesse nazionale dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali (Mibac). La nostra missione è usare al meglio ciò che ci è stato lasciato, occupandoci anche di ricerca e di conservazione. Nel 2011 è nato il club del restauro, creato insieme agli “Amici del Poldi Pezzoli”, ambasciatori del museo in tutto il mondo».

Come è cambiato il museo nel corso degli anni?

«È cambiato grazie al fatto che la città di Milano lo sostiene davvero in ogni modo e alle tante donazioni, almeno 2.500 opere. Ad esempio, Il Cavaliere in nero di Giovan Battista Moroni o La Madonna dell’umiltà con due angeli musicanti di Zanobi Strozzi, allievo prediletto del Beato Angelico. La collezione di pizzi e merletti dal XVII al XIX secolo donata da una famiglia milanese. Nel 1973, la meravigliosa donazione degli orologi meccanici di Bruno Falck e una delle prime opere di Raffaello, regalo di Margherita Visconti Venosta. La collezione di meridiane di Piero Portaluppi, oltre 300 orologi da tasca dal XVII al XIX secolo raccolti da Luigi delle Piane».

Ci dà qualche numero?

«I pezzi sono più di 6.000, inclusi i dipinti. Ci sono vetri, sculture, porcellane, armi, arredi, gioielli, tessuti e tappeti

«Ci lavorano 18 persone più i volontari che per noi sono veramente importanti. Abbiamo tra i 50 e i 60 mila visitatori l’anno. Siamo più conosciuti all’estero che in Italia. I turisti vogliono vedere il Poldi Pezzoli perché è stato un modello per tutte le altre case museo. Secondo Keith Christiansen, presidente del dipartimento di pittura europea del Metropolitan di New York, assomiglia alla Wallace Collection di Londra, alla Frick Collection di New York, alla Isabella Stewart Gardner collection di Boston, e alla Jacquemart André collection di Parigi».

La definirebbe un’istituzione elitaria?

«No. Da un certo punto di vista potrebbe sembrare così perché il Poldi Pezzoli è selettivo e raccoglie solo capolavori, ma abbiamo attività per studenti, in collaborazione con l’Università statale di Milano e cerchiamo di parlare a tutti e far conoscere le nostre opere».

Allestite molte mostre?

«Una, importante, all’anno e poi altre minori, tematiche. Attingiamo alle nostre collezioni. Adesso, fino al 17 marzo, abbiamo Romanticismoorganizzata con Gallerie d’Italia, con 50 opere: l’atmosfera del palazzo aggiunge valore e autenticità. Un esempio della politica culturale del museo è stata la mostra allestita nel 2014 intorno al Ritratto di giovane dama di Piero del Pollaiolo. Abbiamo trascorso quattro anni a fare ricerche e richieste per ottenere altri tre ritratti femminili dello stesso artista che erano al Metropolitan di New York, alla Gemäldegalerie di Berlino e alla Galleria degli Uffizi di Firenze».

Definirebbe questo museo la passione della sua vita?

«Sì. Assolutamente. Ogni volta che visito le stanze scopro qualcosa di nuovo, perché l’arte è senza limiti».

Alain Elkann, La Stampa 3 febbraio 2019