Nel trentennale della caduta del Muro, parla lo studioso tedesco autore dell’opera più documentata sulla vicenda. E racconta la dinamica tra Honecker e Gorbaciov in un’intervista a Tonia Mastrobuoni (La Repubblica)

Dieci anni fa lo storico Andreas Roedder ha scritto la più documentata storia della caduta del muro di Berlino e della riunificazione tedesca. Deutschland einig Vaterland (“Germania patria unita”, C. H. Beck) si legge ancora oggi come una cronaca viva di quei mesi che chiusero il “secolo breve”. In questa intervista, mentre lo studioso di Magonza sta ultimando un libro sul conservatorismo – Roedder è membro della Cdu – ci racconta cosa significò l’89.

Professore, a partire dai primi mesi del 1989, in Germania Est nacquero sempre più movimenti pronti a sfidare apertamente il regime di Erich Honecker. Quell’accelerazione si spiega con la perestroika che Michail Gorbaciov aveva avviato in Unione sovietica?
“Fu il combinato disposto di tre cose. Primo, la perestroika. Che significò anche che l’Urss rinunciò al suo potere sui Paesi satelliti. Secondo, una leadership nella Ddr che non si mostrò più in grado di mantenere credibilmente il potere. Terzo, i movimenti di opposizione che accelerarono grazie alle prime due premesse”.

Come mai Honecker fu l’ultimo – forse con l’unica eccezione del romeno Ceausescu – a capire la portata della rivoluzione di Gorbaciov? Perché si irrigidì fino alla fine?
“Penso che Honecker sia stato invece il primo a capire la perestroika, a comprendere che non sarebbe andata da nessuna parte. Ciò a cui aspirava Gorbaciov fallì: Honecker capì per primo che quel tipo di riforme liberali non erano compatibili con quel tipo di comunismo”.
Ma se avesse capito le conseguenze politiche della perestroika non avrebbe dovuto aprirsi prima, come fecero ad esempio gli ungheresi?
“Honecker sapeva benissimo che la Ddr era un caso a parte. Con la caduta dei regimi in Polonia o in Ungheria, i Paesi sopravvissero. Le Germanie, all’epoca, erano due. La fine del regime avrebbe messo a rischio la sovranità della Ddr”.

Ecco, la crudeltà del regime tedesco e la pervasività dei suoi famigerati servizi segreti, la Stasi, si spiegano anche col fatto che di là del muro c’era un altro pezzo di Germania?
“Esatto. Era l’eterna ipoteca sull’esistenza della Ddr”.

A proposito di due Germanie. Facciamo un salto in avanti. Neanche tre settimane dopo la caduta del Muro, il 28 novembre, Helmut Kohl va al Bundestag e vagheggia una Germania unificata. Mezzo mondo cade dalla sedia. Cosa lo portò a quel colpo di genio?
“Kohl non è mai stato un intellettuale. Ma aveva istinto politico. Anche sull’Europa. Quando cadde il Muro, lui capì immediatamente che l’elefante nella stanza era quello: la riunificazione. Agì per non perdere il controllo. Si mise a capo della rivoluzione. Altrettanto importante come il 28 novembre fu la sua visita a Dresda il 19 dicembre: i cittadini che lo acclamarono lì rafforzarono la spinta che portò alla rapida riunificazione”.

Pensa che la cautela della Spd in quei mesi cruciali – dopo decenni di ostentata Ostpolitik – abbia contribuito al fatto che a Est non sia mai diventato un partito forte?
“Assolutamente. Non è mai riuscita a ‘scaldarsi’ all’idea della riunificazione. Ma la Spd è anche stata “catturata” dai movimenti di opposizione. E si è totalmente chiusa – come i Verdi – rispetto ai membri della Sed, del partito del regime. La Cdu di Kohl si è mostrata più flessibile. E le elezioni di marzo del 1990 hanno dimostrato che aveva ragione lui e che i movimenti di opposizione che tanto avevano fatto per buttare giù il Muro, non avevano la maggioranza nel Paese”.

Ci sono decisioni di quei mesi – ad esempio il cambio 1:1 del marco dell’Est e dell’Ovest o l’adeguamento dei salari – che sembravano economicamente folli ma si sono rivelate politicamente inevitabili. O no?
“Sì, furono inevitabili. Sul mercato nero il marco dell’Ovest ne valeva otto o dieci dell’Est. E i salari della Ddr valevano un terzo di quelli dell’Ovest. Pensi se si fosse scelto il cambio 1:2, il valore dei salari sarebbe crollato a un sesto. La grande emergenza, allora, era la migrazione di massa da Est a Ovest. Una decisione meno generosa avrebbe accelerato quell’esodo”.

Come disse qualcuno la gente “votava con i piedi”… Allargando il campo all’Europa: come fece Kohl a convincere i tedeschi a rinunciare all’unico simbolo di potere che si erano concessi nel dopoguerra, il marco?
“Semplice. Non li convinse a rinunciare al marco: lo fece e basta. L’euro non è il prezzo della Germania per la riunificazione: è il prezzo per la sua forza economica in Europa già negli anni ’80. Alcuni cruciali passi verso l’euro erano stati intrapresi prima del 1989. Quelle tedesche furono concessioni ex post per la sua forza economica in Europa, il motivo per cui i francesi volevano l’euro e la banca centrale. E ricordiamocene: i tedeschi volevano prima la convergenza economica, poi la moneta. Prevalse la teoria opposta, francese ma anche italiana, che introdusse la moneta unica per poi sperare in una convergenza futura”.

Tonia Mastrobuoni, La Repubblica 17 gennaio 2019