Sergio Marchionne è morto ieri nell’ospedale di Zurigo dov’era ricoverato da tre settimane. Nato a Chieti 66 anni fa, figlio di un maresciallo dei carabinieri, ha mantenuto con l’Arma un forte legame. La sua ultima immagine pubblica è proprio la consegna di una Jeep Wrangler al Comando Generale a Roma. Marchionne sarebbe morto per una complicazione improvvisa che lo ha portato a un arresto cardiaco (La Stampa). Fonti vicine alla famiglia smentiscono che avesse un tumore: la causa della morte sarebbe un problema post-operatorio inatteso (Il Sole 24 Ore).

Per 14 anni alla guida del Lingotto è stato il manager globale che ha salvato la Fiat che l’ha portata nel futuro. Nessuno come lui a livello mondiale ha saputo plasmare e permeare un gruppo multinazionale a propria immagine e somiglianza. Marchionne significava Fiat Chrysler Automobiles, Cnh Industrial, Ferrari e viceversa. Un motore instancabile, una fucina di idee, una carica incontenibile. Ne ha assunto la guida nel 2004 sull’orlo della bancarotta e l’ha consegnata idealmente oggi agli azionisti con zero debiti, trasformando i ricavi dai 47 miliardi di euro del 2004 ai 141 del 2017; il risultato netto da -1,5 miliardi a 4,4; la capitalizzazione da 5,5 miliardi a 60, dieci volte di più (Corriere).

Il direttore di Repubblica Mario Calabresi lo ricorda come “l’uomo che viveva di lavoro”.  Mai interrompere una riunione finché non era conclusa, concentrarsi su una cosa alla volta e chiuderla. E non distrarsi con i telefoni. Mettere un finto appuntamento in agenda ogni due ore, per aver uno spazio dove risolvere i problemi improvvisi. E se non succede niente? “Ho un’occasione per riordinare la musica”. Migliaia di brani che teneva sul Mac, da Keith Jarrett alla Callas […]  All’Italia contestava anche l’incapacità di scommettere sui giovani, di dare spazio alle nuove generazioni, anche per questo rimase folgorato quando lo invitarono al Meeting di Rimini: “Ho visto l’energia dei ragazzi in un Paese che li soffoca”. Diverso era il rapporto con la politica americana – prosegue Calabresi. Amò molto Obama, di cui lodava la capacità di visione, di aver salvato Detroit, l’auto e un pezzo fondamentale della storia dell’industria americana. Di aver aperto la porta agli italiani. Il rapporto tra i due era fortissimo. Questo non gli impedì una certa familiarità anche con Donald Trump, che ha saputo incarnare alla perfezione l’americano medio: per questo l’hanno votato storici elettori democratici che avevano trovato uno che per la prima volta parlava la loro lingua e diceva quello che volevano sentirsi dire: nessuno porterà mai più il lavoro fuori dai confini dell’America.

Un grande italiano, pioniere del nostro tempo, scrive il direttore della Stampa Maurizio Molinari. Sergio Marchionne per Molinari – intervistato da SkyTg24 – è stato soprattutto un innovatore e allo stesso tempo un grande protagonista dell’economia globale. Lo è stato nell’approccio che aveva al lavoro, nel chiedere a ogni suo dipendente il massimo e nel puntare di fare della sua azienda e dell’Italia un competitore globale, di altissimo livello. In questo senso è stato l’uomo che ha salvato la Fiat, che ha salvato Chrysler. Un imprenditore più che un manager – scrive Dario Di Vico sul Corriere. Perché Marchionne ci metteva del suo, era sentimentalmente legato ai destini dell’ex Fiat tanto da assumere su di sé il rischio di impresa pagandolo con la messa in mora del suo corpo, del suo stato di salute. Era il manager filosofo che cambiò Fiat e un po’ l’Italia, sottolinea Il Sole 24 Ore e sarà ricordato come l’imprenditore che nel 2004 ha salvato la Fiat dal fallimento trasformandola nel settimo gruppo automobilistico mondiale. Per Il Foglio muore Marchionne, non la sua rivoluzione: apertura contro chiusura, competizione internazionale contro protezionismo, produttività contro assistenzialismo. L’Italia non può fare a meno del suo messaggio di rottura. Sergio Marchionne ha rotto tante regole, anche quella antica secondo cui dei morti non si può che parlare bene (“de mortuis nihil nisi bonum”). Anche nella malattia, grave e improvvisa che lo ha spento, non gli sono state risparmiate dure critiche, rispettose da chi lo considerava un avversario ma addirittura offensive nei commenti di chi lo ha sempre visto come un nemico di classe.

Per il Financial Times è stato uno dei più coraggiosi business leader della sua generazione. Il Wall Street Journal lo ricorda come il manager che ha ideato la fusione tra le due aziende più deboli del settore auto, Fiat e Chrysler, e ha trasformato la combinazione in una macchina da soldi. Per il Washington Post, il manager si è dimostrato un mago dei negoziati architettando uno dei più audaci accordi del settore automobilistico della storia, quando convinse il governo americano a vendere la Chrysler in bancarotta alla Fiat. Il New York Times guarda al futuro e vede la strada accidentata che Marchionne ha lasciato al suo successore. Anche Reuters sottolinea l’impresa che attende Mike Manley, quella di raddoppiare le vendite.

(com.unica, 26 luglio 2018)