È mancato oggi all’età di 90 anni Enzo Bettiza, una delle firme più prestigiose del giornalismo italiano e grande scrittore. Nato a Spalato da una famiglia italiana dell’alta borghesia, aderì in gioventù al Partito Comunista, da cui si allontanò presto per abbracciare il liberalismo e diventare uno spietato critico dell’ideologia marxista-leninista e del comunismo reale dei Paesi dell’Est. Nel 1957 iniziò la sua attività di corrispondente per il quotidiano “La Stampa”, prima da Vienna e poi da Mosca. Poi passò al “Corriere della Sera” per il quale lavorò, sempre come corrispondente dall’estero, per dieci anni. Bettiza è stato anche direttore del “Resto del Carlino” e della “Nazione”, fu tra i fondatori de “Il Giornale” insieme a Indro Montanelli, dopo aver abbandonato il Corriere in dissenso con la linea a suo parere troppo filocomunista impressa dal direttore Piero Ottone. Fino alla fine dei suoi giorni è stato editorialista de “La Stampa”. Tra le sue maggiori opere letterarie ricordiamo Esilio (Premio Campiello nel 1996, Mondadori), memoria dell’infanzia e adolescenza nella natia Dalmazia mitteleuropea dagli anni Venti alla Seconda guerra mondiale, e il romanzo I fantasmi di Mosca (Mondadori 1993), una lunga riflessione sul totalitarismo negli anni delle purghe staliniane. Tra i saggi 1989, la fine del Novecento (Mondadori 2009).

Per ricordarlo pubblichiamo un interessante dialogo sul Novecento con Claudio Magris, a cura di Dario Fertilio, dal Corriere della Sera del 2 aprile 2010.


Novecento, il secolo del Male ancora in cerca di scrittori forti

Il ruolo guida dei maestri della letteratura in un tempo privo di anima Mitteleuropa. Perché i «romanzi di frontiera» esprimono meglio totalità e incompiutezza.

Fossero due personaggi dei loro romanzi, si incontrerebbero probabilmente a Vienna, nel palazzo «discreto e solenne» sulla Herrengasse dove il protagonista dei Fantasmi di Mosca cede a un’ambigua tentazione femminile; meglio, alla Libreria Petöfi di Budapest, nell’«atmosfera di intimità onirica» in cui masse di volumi «sterminate e compatte» si mescolano ai «blocchi delle torte Dobo!». O ancora, seguendo il vagabondare capriccioso di Danubio, nell’antica farmacia Al gambero rosso di via Michalskà, a Bratislava, dove un affresco del dio del tempo sembra sfidare i rimedi di pozioni e misture; o anche dietro agli specchi girevoli del caffè Lloyd, a Fiume, in cui Tore Cipiko, dopo l’ultima visione fuggevole di Maria, incomincia il suo viaggio. Alla cieca.

Ma trattandosi di due personaggi reali e differenti, per quanto collegati sotterraneamente da molte affinità elettive, Enzo Bettiza e Claudio Magris hanno alle spalle una storia lunga di incontri e confronti, iniziata a metà degli anni Sessanta a Gorizia, all’Istituto degli Incontri Culturali Mitteleuropei, e consolidata dalla presentazione successiva, da parte di Magris, a Milano, del bettiziano Diario di Mosca. A partire da allora, il percorso delle loro biografie letterarie si snoda in parallelo, sotto un segno preciso: pur sentendosi entrambi figli della grande koinè mitteleuropea e scrittori di confine, rifiutano di essere epigoni. Per dirla con Bettiza: vogliono usare «l’ironia verso le stesse origini e matrici» della loro cultura.

«L’intreccio ben confezionato, che oggi sembra tornare di moda, ha davvero superato quella crisi o, come io credo, anzi noi crediamo, fa solo finta di non vederla? La grandiosità terribile del Novecento è stata davvero messa in soffitta dalle mezze luci del post-moderno e della sua letteratura che non colpisce più come un pugno, come voleva Kafka, anche se nel mondo continuano a succedere tante cose terribili? In una lettera del 1966 Enzo mi parlava del suo rifiuto di essere un epigono; a parte i risultati letterari che solo possono dare risposta a questa domanda (e non siamo noi a poter giudicare i nostri libri) non credo affatto che questa sia una posizione epigonale, anzi. Il romanzo del Novecento — scrive De Michelis nel suo recentissimo Moderno Antimoderno, fondamentale per il nostro discorso— si è identificato con la crisi del Moderno, ma l’attuale postmoderno non sembra un superamento, bensì un “riciclaggio”».

Perché questo fantasma ricorrente, ma forse da voi sentito come non del tutto negativo, dell’incompiutezza?

Bettiza: «Sì, la caccia alla totalità, nella letteratura cui apparteniamo, porta necessariamente all’incompiutezza. A differenza dello scrittore italiano, quello di frontiera è adatto a travalicare i confini e rompere le chiusure, favorendo il travaso di un secolo, il Novecento, solo apparentemente concluso. Le cinquecento pagine del mio Fantasma di Trieste, le duemilasette dei Fantasmi di Mosca sono la testimonianza di questa mia ricerca della totalità. Non per titanismo o superomismo, sia ben chiaro. Ma perché altrimenti, secondo me, non si possono più scrivere romanzi seri e credibili. Devono confluirvi vari elementi e generi contrastanti, come la narrazione, la filosofia politica, anche certe forme di giornalismo: nel tentativo di ricreare, dopo l’antiromanzo, il post-romanzo».

Tutto questo sembra vi porti molto lontano dai modelli italiani contemporanei. Tu Enzo fai spesso il nome semmai di Milan Kundera.

Magris: «È una sete di totalità. Ciò implica una estraneità all’attuale restaurazione della narrativa tradizionale, anche se né Enzo né io siamo mai stati esplicitamente avanguardisti, pur sentendo fortemente — almeno io — l’esigenza, ancora insoddisfatta e dunque viva, posta dalle avanguardie. Ciò implica pure una comune preferenza per il genere letterario misto, come nel mio caso Danubio ».

Bettiza: «La verità è che la letteratura italiana continua a girare attorno ai soliti tre o quattro nomi: Calvino, Gadda, Pavese… Poi viene soltanto una modesta scuola postmoderna nella quale non mi riconosco; un relativismo che finisce per dissolvere l’idea stessa del male. E diciamo la verità, questo vale anche per una certa letteratura americana à la page… non certo Faulkner o Bellow…».

Magris: «Ma Gadda è grande e totale! E poi non sono d’accordo con questa generalizzazione; la letteratura italiana è più varia e ricca di quanto appaia dalle semplificazioni mediatiche che spesso impongono criteri e grandezze fasulle. Ci sono molti autori e autrici interessanti, ribelli o estranei all’ordine del giorno del discorso culturale obbligato, e questo vale ovviamente pure per gli Stati Uniti. Del resto, con Faulkner, la letteratura americana ha dato un grandissimo esempio, fra i più grandi in assoluto, di quella ricerca spezzata di totalità. In ogni modo, ormai, la grande letteratura totale sembra esistere solo o almeno soprattutto fuori dall’Europa: Sábato, Vargas Llosa, Mo Yan, o europei particolari come Glissant, scrittore francese nato nella Martinica».

Bettiza: «Leggo volentieri Sgorlon, apprezzo Vargas Llosa, non esagero negli abbracci ecumenici. E ammiro il coraggio di Littell, un ebreo americano che scrive in ottimo francese per incarnarsi in uno sfaccettato criminale nazista tedesco».

Magris: «Anche se i letterati postmoderni francesi hanno proclamato la fine del “grande racconto”, credo— e penso lo credi anche tu— che sia ancora non solo possibile, ma necessario scriverli. Non credo che chi lo tenta sia avviato al cimitero degli elefanti, come chi si dedicasse a comporre in belle ottave. Credo proprio invece che i conflitti attuali, spaventosamente irrisolti, siano ancora in buona parte novecenteschi, nati con lo squarcio attuato dal e nel Novecento, e da esso non sanato. Si tratta di procedere oltre, ma senza illudersi di aver pacificamente superato quelle lacerazioni. Per ricordare un’immagine di Enzo in Arrembaggi e pensieri, quella del Titanic che affonda, bisogna chiedersi se sia sprofondato e sparito per sempre o se ancora ribolla, magari pronto a riesplodere e vada dunque scandagliato».

Bettiza: «Il Novecento, definito da Hobsbawn “secolo breve”, si sta invece rivelando lungo, lunghissimo. Stermini, esodi, carestie, guerre regionali infinite, malattie e miracoli inauditi: non si può costringerlo nella camicia di forza della brevità, facendolo coincidere quasi al millimetro con la durata del comunismo reale. Il secolo passato si è innestato su quello attuale, senza soluzioni di continuità. Ecco perché il nichilismo dolce e pigro di questi anni zero del XXI secolo non può esprimerlo, se non stancamente». Un tempo, si usava l’immagine del «filo rosso» per collegare ieri e oggi.

Magris: «Se alludi all’epoca del comunismo, certo tragica, direi che è finita per quel che riguarda le sue risposte, ma restano invece aperte le sue domande. Non è un caso che il mio Alla cieca e Il libro perduto di Bettiza siano apparsi, senza che l’uno sapesse dell’altro, quasi contemporaneamente. E che siano decisamente “altri” e diversi rispetto alla letteratura italiana corrente e che in entrambi ci sia il corto circuito tra grandezza e miseria, idealità e tragedia di quel filo rosso del comunismo col quale inizia (e prosegue con furore) la narrativa di Enzo. Siamo epigoni o scrittori che tentano di avanzare verso il futuro attraverso lo squarcio del Novecento “interrotto”».

Bettiza: «Interrotto fino a un certo punto. Non s’erano mai visti altrettanti travasi, scambi fra ieri e l’oggi della nostra stanca civiltà occidentale. Il comunismo ha attraversato il nostro tempo nelle sue dimensioni politiche, moralistiche, criminali. Purtroppo alle domande eccessive, umane troppo umane, il comunismo ha dato la sua risposta: sempre la più disumana. Insomma, l’eterogenesi della risposta finale. Penso alla “Storia come camera di rianimazione” descritta nel tuo Alla cieca, in cui sembri darmi ragione».

Magris: «Sì, scrivo che la Storia è una camera di rianimazione ed è facile sbagliare dose e mandare all’altro mondo i pazienti che si volevano salvare». Bettiza: «La coincidenza mi fa pensare a quello “hangar di rianimazione” che in parte sono i miei Fantasmi di Mosca. Un inno tragico e parodistico alla partenogenesi antropologica del comunismo».

Magris: «Il Novecento mi sembra segni la rottura di un equilibrio non ancora ricostituito, una tensione convulsa fra totalità— un impulso buono ad una vita unitaria pervasa di senso, ma pervertito in tanti tentativi di realizzazione politica— e frammentazione, anch’essa buona nella rivendicazione dell’individualità, ma pervertita nell’ossessione particolaristica».

Bettiza: «Concordo, salvo completare il termine “totalità” con quello di totalitarismo. Il che mi conduce a riconoscere un’altra continuità storica e ideologica: quel filo che lega il nazionalsocialismo al gemello comunista e, oggi, al nipotino islamista. Una tensione alla totalità, vedi, che ha generato e continua a generare gli orrori sotto gli occhi di tutti».

Magris: «Sì, a parte ogni giudizio politico, certo diverso in noi due, il filo rosso del comunismo mi sembra rimanga centrale. E accanto ad esso il tentativo fallito di sottoporre l’economia alla politica. Tentativo di per sé sensato, che nasce da un fondamentale impulso, ma che appunto si è pervertito nei totalitarismi. Ma, anche qui, una domanda rimasta aperta, che segna il mondo e ilmodo di rappresentarlo, di raccontarlo».

È questo fallimento, oltre al tentativo di superarlo, che gli scrittori dovrebbero cercare di esprimere? E si nasconde qui, in questa mancanza, la ragione per cui tanta letteratura contemporanea non ci parla, non ci coinvolge davvero?

Bettiza: «Certo, dobbiamo cercare di capire, ed esprimere, il perché alle domande fondamentali poste dal Novecento siano state date risposte così disastrose. Il fallimento di quell’impulso, di quella fede totalitaria sarà stato anche titanico, a tratti superomistico, quasi più nietzschiano che marxiano, ma ha pur sempre portato con sé risposte criminali e nichilistiche».

Magris: «Risposte sbagliate, ma forse domande ancora aperte, se riflettiamo su quanto sta accadendo nel mondo. E allora io sostengo la necessità di recuperare una dimensione forte della letteratura, opposta al pensiero debole post-moderno. Si deve ritornare a cogliere la grandezza e la tragedia di ciò che accade. Penso a certe tue pagine che mi hanno sempre colpito in questo senso, ad esempio la descrizione dell’umiliazione di Voroscilov nel Diario di Mosca, del volto di Tito a Praga nel ’68, o di quelli dei fedeli ai suoi funerali, descritti da te, Enzo, nei tuoi ultimi saggi. Sento, ad onta di ogni differenza, un’aria di famiglia col ritratto che cerco di dare di Alberto Cavallari, nel mio Danubio, inviato speciale disperso nel buio e nel fango ungherese durante l’invasione sovietica del ’56…».

Bettiza: «… o all’attrazione per i luoghi estremi, in tutto il tuo Alla cieca. Se li confronto con certi passaggi dei romanzi di oggi, che hanno abbandonato Manzoni e discendono senza saperlo da d’Annunzio, ho l’impressione che la grande storia dia fastidio a chi vuol raccontare solo storie minori. Costoro si levano a stento il cappello per Svevo, mentre Saba e Marin, Giotti, Slataper eMichelstaedter, e più in là, nel Veneto occidentale il grande, ignorato e frainteso Piovene, sono dimenticati. Ma io preferisco restare con loro. Della noia e dell’ammirazione stupefatta per quel Cagliostro militarizzato della letteratura che fu d’Annunzio (Italia novecentesca al cubo) oggi non mi resta che la noia. Fiume meritava più navi e commerci che puttanieri in stivali e “alalà”». Una letteratura forte per un secolo lungo.

Magris: «Ciò che conta non è tanto il prodotto letterario, ma sono le cose ultime. O almeno, visto che queste inevitabilmente ci sfuggono, le cose penultime, ma pur sempre fondamentali, perché, pur facendoci sentire la nostra inadeguatezza, ci rimandano a quelle…».

(a cura di Dario Fertilio, Corriere della Sera 2 aprile 2010)