L’economista premio Nobel Michael Spence interviene nel dibattito sul futuro dell’Europa. Verso una più profonda integrazione ed una crescita inclusiva o un disastro al rallentatore? L’unica certezza è che lo status quo non può essere sostenuto all’infinito.

Un amico di Milano, persona competente, recentemente mi ha posto la seguente domanda: “Se un investitore esterno, americano per esempio, volesse investire una somma considerevole nell’economia italiana, cosa gli si potrebbe consigliare?” Ho risposto che, pur essendoci molte opportunità di investire in aziende e settori, in generale l’ambiente di investimento è complesso. A mio avviso sarebbe raccomandabile investire a fianco di un partner nazionale di esperienza, che sappia destreggiarsi nel sistema ed individuare i rischi in parte occulti.

Ovviamente, lo stesso consiglio vale per molti altri paesi, come Cina, India e Brasile. Ma la zona euro si sta sempre più trasformando in un blocco economico a due velocità, e le potenziali implicazioni politiche di questa tendenza stanno amplificando le preoccupazioni degli investitori.

In una recente meeting di consulenti di investimento di alto livello, uno degli organizzatori ha chiesto a tutti se ritenevano che l’euro sarebbe ancora esistito da lì a cinque anni. Solo una persona su 200 ha espresso un parere negativo – una valutazione collettiva piuttosto sorprendente dei rischi in atto, data l’attuale situazione economica dell’Europa.

In questo momento, il PIL reale (al netto dell’inflazione) dell’Italia è più o meno al livello del 2001. La Spagna sta ottenendo migliori risultati, ma il suo PIL reale ha ancora un valore vicino a quello registrato nel 2008, poco prima della crisi finanziaria. E i paesi dell’Europa meridionale, tra cui la Francia, hanno sperimentato recuperi estremamente deboli e tassi di disoccupazione tenacemente alti – superiori al 10%, e molto più elevati per le persone di età inferiore ai trent’anni.

I livelli di debito sovrano, nel frattempo, si sono avvicinati o sono stati superiori al 100% del PIL (in Italia è ora al 135%), mentre sia l’inflazione che la crescita reale – e quindi la crescita nominale – rimangono basse. Questo persistente eccesso di debito sta limitando la possibilità di utilizzare misure fiscali per contribuire a ripristinare una crescita vigorosa.

La competitività dei settori commerciali delle economie della zona euro è molto variabile, a causa di divergenze emerse dopo il lancio della moneta unica. Anche se il recente indebolimento dell’euro smusserà l’impatto di alcune di queste divergenze, esso non le eliminerà del tutto. La Germania continuerà a mantenere avanzi elevati; e i paesi in cui il rapporto tra costi unitari del lavoro e produttività è elevato continueranno a produrre una crescita insufficiente dal commercio.

Dalla crisi finanziaria del 2008, è diventata opinione comune che un recupero, lungo e difficile, avrebbe infine comportato una forte crescita per le economie della zona euro. Ma questo racconto sta perdendo credibilità. Invece di avere una lenta ripresa, l’Europa sembra essere intrappolata in un equilibrio di bassa crescita semi-permanente.

Le politiche sociali dei paesi della zona euro hanno smussato l’impatto distributivo della polarizzazione di lavoro e reddito, alimentata da globalizzazione, automazione e tecnologie digitali. Ma questi paesi (e, ad essere onesti, molti altri) devono ancora fare i conti con tre importanti cambiamenti intervenuti nell’economia globale a partire all’incirca dall’anno 2000.

In primo luogo, e più vicino a casa, l’euro è stato introdotto senza una complementare unificazione fiscale e normativa. In secondo luogo, la Cina ha aderito all’Organizzazione Mondiale del Commercio, ed è diventata molto più integrata all’interno dei mercati globali. E, terzo, le tecnologie digitali hanno iniziato ad avere un impatto sempre maggiore sulla struttura economica, sui posti di lavoro, e sulle catene di fornitura globali, cosa che ha alterato in modo significativo i modelli occupazionali globali ed ha accelerato il processo di perdita dei lavori routinari.

Poco dopo, tra il 2003 e il 2006, la Germania ha messo in atto riforme di vasta portata per migliorare la flessibilità strutturale e la competitività. Inoltre, nel 2005, è decaduto l’Accordo Multifibre (Multi-Fiber Arrangement – MFA). Senza il MFA, che aveva sostenuto le quote delle esportazioni tessili e di abbigliamento dal 1974, la produzione tessile mondiale si è fortemente concentrata in Cina e, a sorpresa, in Bangladesh. Nel solo 2005, la Cina ha raddoppiato le sue esportazioni di prodotti tessili e di abbigliamento verso l’Occidente. Questo sviluppo ha avuto un effetto particolarmente negativo sulle regioni più povere d’Europa e nei paesi in via di sviluppo meno competitivi di tutto il mondo.

Questi cambiamenti hanno creato squilibri nel modello di crescita di numerosi paesi. Poiché molti paesi hanno adottato misure per affrontare le carenze della domanda aggregata, è cresciuto il debito sovrano, e le bolle immobiliari si sono ampliate. Questi modelli di crescita erano insostenibili, e quando alla fine sono crollati, sono emerse le debolezze strutturali di fondo.

Oggi, stanno crescendo resistenze al sistema attuale. Il referendum sulla Brexit del Regno Unito e l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti riflettono il malcontento pubblico contro gli aspetti distributivi dei recenti modelli di crescita. Inoltre, il crescente consenso verso i partiti populisti, nazionalisti e anti-euro potrebbe rappresentare una seria minaccia anche per l’Europa, soprattutto in grandi paesi della zona euro, come Francia e Italia.

Che questi partiti abbiano successo o meno in sede elettorale in un futuro immediato, già solo la loro comparsa dovrebbe mettere in dubbio opinioni eccessivamente ottimistiche circa la longevità dell’euro. Le forze politiche anti-euro si stanno chiaramente facendo strada elettoralmente, e continueranno a guadagnare terreno fintanto che la crescita rimane anemica e la disoccupazione elevata. Nel frattempo, nel breve termine è molto probabile che l’UE non intenda perseguire politiche sostanziali o riforme istituzionali, per paura che così facendo possa influenzare negativamente l’esito delle importanti elezioni di quest’anno in Olanda, Francia, Germania, e forse in Italia.

Ovviamente, una visione alternativa sostiene che la Brexit, l’elezione di Trump, e l’ascesa di partiti populisti e nazionalisti serviranno da campanello d’allarme, e da stimolo per l’Europa verso una più ampia integrazione e politiche orientate alla crescita. Ciò richiederebbe che i responsabili politici della UE abbandonino l’idea che ogni paese possa essere il solo responsabile del mantenimento dell’ordine in casa propria, confermando allo stesso tempo il rispetto degli impegni fiscali, finanziari e di regolamentazione previsti dalla UE.

La riconferma delle norme UE non è più praticamente possibile, in quanto il sistema attuale impone troppi vincoli e contiene pochi meccanismi efficaci di adeguamento. Di certo, sono assolutamente necessarie le riforme fiscali, strutturali e politiche; ma esse non saranno sufficienti a risolvere il problema di crescita dell’Europa. L’amara ironia in tutto questo è che i paesi della zona euro hanno un enorme potenziale di crescita in numerosi settori. Lungi dall’essere casi disperati, essi hanno semplicemente bisogno che si riducano i vincoli di sistema.

Il futuro dell’Europa sarà un disastro al rallentatore, o una nuova generazione di giovani leader riuscirà a svoltare verso una più profonda integrazione ed una crescita inclusiva? È difficile a dirsi, e per quanto mi riguarda, per esempio, non si potrebbe escludere nessuna delle due eventualità.

Una cosa sembra chiara: lo status quo è instabile e non può essere sostenuto all’infinito. In assenza di un cambiamento deciso nelle politiche e nella traiettoria economica, ad un certo punto si faranno scattare gli interruttori politici, proprio come è avvenuto negli Stati Uniti e nel Regno Unito.

(Michael Spence*/Project-Syndacate 01 marzo 2017)

* Michael Spence (Montclair, 7 novembre 1943) è un economista statunitense, insignito del Premio Nobel per l’economia nel 2001 insieme a Joseph E. Stiglitz e George A. Akerlof per le loro analisi dei mercati con informazione asimmetrica. Oggi insegna alla New York University.