La pandemia. Il conflitto mediorientale. L’ultimo romanzo. E anche cosa vuol dire perdere il proprio figlio. Premiato in Italia con l’Hemingway, il grande scrittore israeliano si racconta. Dal Venerdì-Repubblica

“Conosce un po’ di ebraico? Se mi chiede come va, posso risponderle con una sola parola: balagan“. Così, con un termine che sta per disordine e caos, inizia la conversazione con David Grossman. A fine giugno avrebbe dovuto essere in Italia, a Lignano Sabbiadoro, a ricevere il premio Hemingway per il suo romanzo più recente, La vita gioca con me, ma la premiazione a causa della pandemia si è trasformata in un festival online, al quale parteciperà a distanza (dal 25 al 27 giugno su www.premiohemingway.it). È quindi al telefono dalla casa di Mevaseret Zion, nei sobborghi di Gerusalemme, che lo scrittore ci risponde. Dalle colline della Città d’oro, fin dagli anni Ottanta di Vedi alla voce: amore Grossman ha messo a nudo Israele e l’animo umano. E oggi, con la stessa lungimiranza lucida e a un tempo affettuosa con cui guarda ai suoi personaggi, lo scrittore riflette sul tempo imprevisto e imprevedibile della pandemia, sul futuro incerto del Medio Oriente e su quest’ultimo libro che, nato dalla storia vera della partigiana ebrea iugoslava Eva Nahir Panic, si è trasformato in un mosaico sulla famiglia, la maternità, l’amore. Confidandoci la sua fiducia nel potere della bellezza, capace di proteggerci e di consolarci quando sappiamo coglierla e rimetterci in cammino, anche solo nella nostra mente.

Lei ha scritto per Repubblica un articolo sulla pandemia diventato virale. Come vive questo momento?
“Cosa posso dirle? È un periodo di grande incertezza in Israele. L’epidemia di coronavirus ha avuto una recrudescenza. Un milione di israeliani sono disoccupati. Netanyahu ha dichiarato di voler annettere il trenta per cento dei Territori Occupati senza negoziati con i palestinesi e con il solo supporto di Mr. Trump, un nome che solo a pronunciarlo evoca incredulità. C’è il rischio di una nuova Intifada. Tutto è stato deciso tra gli americani e il nostro primo ministro, come se i palestinesi fossero bambini senza diritto di parola. È una situazione piena di tensione, come del resto tutta l’esistenza di questo paese. Non si possono fare previsioni, ma penso che Netanyahu in realtà tenterà di rimandare all’infinito l’applicazione di questo progetto. Al di là delle vicende israeliane, credo che la pandemia ci abbia mostrato che ogni tentativo di domare il futuro è ridicolo. Avevamo la nostra vita, buona o sopportabile, i legami familiari, le amicizie. Improvvisamente l’abisso si è aperto di fronte a noi e abbiamo contemplato la nostra fragilità. Ciò ci insegna a essere più modesti, a ridimensionare la megalomania. C’è un proverbio yiddish che dice: ‘L’uomo progetta, Dio ride’”.

Per chi è religioso è la conferma della necessità di essere umili.
“Quando abbiamo perso nostro figlio Uri – saranno quattordici anni ad agosto – ho pensato che chi è religioso può affrontare meglio simili perdite, perché si affida a Dio anche se Dio lo ha ingannato. Io non sono credente, però ho scovato un luogo da cui guardare nell’Aldilà, in cui sentire il nulla e al tempo stesso la pienezza della vita. Questo luogo è l’arte: la letteratura, la poesia, la musica. Per chi non crede è importante sapere che la vita ha un significato, dato dai valori che creiamo. C’è poi un altro effetto della paura di perdere coloro che amiamo: ci accorgiamo della loro unicità. Ogni uomo e ogni donna racchiudono in sé un’intera civiltà: fare lo scrittore ha affinato questa consapevolezza. Possiamo scrivere centinaia di storie e mai nessun personaggio avrà la forza vitale di una persona reale. La bramosia di afferrare anche un solo istante di tale vitalità è ciò che mi spinge a scrivere”.

Nel suo La vita gioca con me lei fa questo: trasforma in romanzo una storia vera, quella della partigiana iugoslava Eva Nahir Panic, giunta in Israele dopo essere stata prigioniera in un “campo di rieducazione”. L’ha conosciuta?
“Sì, certo. Un giorno mi ha telefonato: parlava ebraico con un accento inconfondibile, lo stesso che ho tentato di dare a Vera, la protagonista del romanzo. Voleva discutere di un articolo che avevo scritto. Mi ha richiamato qualche settimana dopo: era una brava narratrice, disseminava il discorso di indizi sulla sua storia. Così le ho chiesto se potevo scriverne e lei mi ha detto di sì. Ci siamo visti più volte a Gerusalemme, poi nel kibbutz dove andò ad abitare quando arrivò con sua figlia, che nel romanzo si chiama Nina”.

È stato anche a Goli Otok, l’isola prigione dove il maresciallo Tito manda la sua protagonista con l’accusa di essere stalinista?
“Sì, Eva era in uno dei campi più duri: ha vissuto come una schiava per quasi tre anni. È sempre stata minuta, pesava poco più di 40 chili: non riuscirò mai a capire come sia sopravvissuta. Riuniva in sé qualità contraddittorie: era molto rigida sui principi e al stesso tempo era affettuosa ed empatica. Una forza della natura. Il romanzo ruota intorno al rapporto con la figlia: aveva solo sei anni quando Eva fu portata a Goli Otok e la lasciò sola”.

Nel romanzo la figlia Nina per tutta la sua giovinezza non riesce a perdonare la madre.
“Sì, ma ciò che mi interessa è la sua capacità di amare e di perdonare. Nina riuscirà a giustificare sua madre Vera, a vedere la complessità del suo dilemma. È accaduto davvero: Eva e sua figlia si sono riconciliate prima della morte di Eva nel 2015. È il potere della famiglia: un oggetto di indagine straordinario. I grandi drammi non succedono nei palazzi del potere o nei campi di battaglia, ma in cucina o in camera da letto”.

Essere o non essere madre. E, se lo si è, il dubbio di non essere una “buona” madre. La sua storia scava in questo dilemma.
“Mi pare un dilemma primario. Devo confessare, del resto, che la paternità è stata la questione fondamentale della mia vita. Ora sono nonno, ho due nipotine, l’equilibro è diverso. Ovviamente è più facile per me scrivere del rapporto tra le madri e i figli maschi, come in Il libro della grammatica interiore. Qui invece ho messo in scena tre donne, inventando anche il personaggio di Ghili, figlia di Nina e nipote di Vera. Era più complicato”.

Cosa significa raccontare dalla prospettiva di una donna?
“Ho dovuto abbandonare paure, inibizioni e convenzioni. Ho passato abbastanza tempo facendo lo scrittore da sapere quanto è soddisfacente essere nel mondo e, grazie a ciò che scrivi, essere in un altrove, magari contraddittorio. Vale anche, ad esempio, per lo scrivere da israeliano mettendosi nei panni di un palestinese. Del mio punto di vista so persino troppo. Cosa succede se vedo il conflitto con gli occhi del ‘nemico’?”.

Quindi la discussione sull’appropriazione culturale, sul fatto che non sia possibile, o eticamente giusto, scrivere dalla prospettiva dell’altro, non la convince?
“Non penso che si possa prescrivere a qualcuno cosa scrivere e da che punto di vista. È importante, ad esempio, capire come un genere vede, o anche mistifica, l’altro genere. Tutto questo fa parte di una cultura, la costruisce. Madame Bovary è un romanzo straordinario su una donna scritto da un uomo. Prima di essere maschio o femmina siamo esseri umani che cercano di comprendere se stessi. Non minimizziamo il nostro essere: siamo un oceano”.

In La vita gioca con me, dopo la prigionia Vera arriva nel kibbutz: la metafora della possibilità di reinventare se stessi.
“Il kibbutz è per certi versi l’unica utopia novecentesca sopravvissuta: il socialismo e il comunismo hanno fallito, il capitalismo è crudele. Chi arrivò qui dopo la Shoah, o nei decenni precedenti, trovò nel kibbutz un luogo per curare le ferite che gli erano state inflitte in Europa. Negli ultimi anni sembrava che queste bolle di egualitarismo fossero destinate a collassare, ma alcune restano in piedi. Mio figlio, sua moglie e le mie nipoti vivono in un kibbutz non lontano da qui”.

Esiste qualcosa di simile a questa utopia per il futuro di Israele?
“È una domanda dolorosa. Se penso a una risposta, vedo quanto siamo lontani dalla possibilità di guarire, dalla solidarietà. Cinquantatré anni fa, con la vittoria nella Guerra dei sei giorni, ci siamo ubriacati della nuova terra improvvisamente conquistata, dell’efficienza con cui avevamo battuto i Paesi arabi, della possibilità di tornare nei nostri luoghi mitici e sacri, dalla tomba di Giacobbe al Sinai. Una società ubriaca di potere diventa aggressiva, all’esterno ma anche all’interno. L’unico modo di guarire è comunicare con i palestinesi direttamente, ascoltare e farsi ascoltare”.

Il nostro colloquio è finito. Ma prima di lasciarci Grossman aggiunge: “Scriva che saluto i miei lettori in Italia. Non rida di me, ma ogni giorno chiudo gli occhi per cinque minuti e immagino di passeggiare nel vostro Paese. Ci sono luoghi che amo così tanto che persino esserci con il pensiero è un privilegio”. Quali? “Non lo dirò, è un segreto”.

Lara Crinò, Il Venerdì-La Repubblica 19 giugno 2020