Edvard Munch è il più grande pittore simbolista scandinavo e uno dei padri dell’Espressionismo europeo. Il rifiuto del naturalismo degli impressionisti, che porterà alle vicende dell’arte contemporanea, troverà la sua massima esperienza nella pittura di Munch.

Nacque a Loten, in Norvegia, nella tenuta agricola Engelhaugen, vicino la guarnigione militare dove il padre Christian era medico, il 12 dicembre 1863. In seguito, nel 1864, si trasferì con la famiglia a Christiania, odierna Oslo. Da bambino, la sua giovane vita fu segnata dalla malinconia del padre e dalla sua salute cagionevole, ma anche da una serie di lutti: sua madre Laura, affetta da crisi psichiche, morì di tisi nel 1868, quando lui aveva appena cinque anni. Sua sorella Sophie morì della stessa malattia nel 1874. La famiglia visse sempre in precarie condizioni economiche e vi è traccia di questo nelle prime esperienze artistiche di Munch, il quale ritraeva spesso le stanze spoglie e il degrado in cui erano costretti a vivere. Dal padre erediterà l’animo ipersensibile, la tendenza all’autocommiserazione, con un’accentuazione dell’idea pessimistica dell’esistenza, alimentata dalla malattia e dalla morte di sua madre e di sua sorella. Nei suoi dipinti torneranno spesso i tristi ricordi della sua infanzia e della sua fanciullezza.

Nel 1880, dopo aver frequentato l’istituto tecnico per studiare ingegneria, nonostante il parere contrario di suo padre Munch decise di voler fare il pittore e si iscrisse alla Scuola di Disegno: come si evince dai primi autoritratti, era un uomo piacente e severo, sicuramente alla ricerca di una identità interiore, che si ritrovò immerso nel clima simbolista norvegese, dove le tensioni e le libertà pittoriche preannunciavano gli accenti espressionisti. Munch si distaccò progressivamente dalla poetica impressionista, di cui tuttavia si era nutrito, inventando temi ora simbolici, ora più aderenti alla realtà, legati alle meditazioni interiori, alle intuizioni, al rovello psicologico, dando vita, nelle sue tele, ai suoi fantasmi interiori. La sua mente era fragile, ossessionata dal pensiero della morte, dall’alienazione, dallo smarrimento, e il mondo figurativo che ne derivava esprimeva forti sensazioni di lutto e angoscia. Nondimeno le sue immagini caotiche e le ansie esistenziali, il singolare simbolismo che ha in sé l’apertura verso l’espressionismo, rivelavano altre radici, che affondavano nella letteratura, nella poesia, nella filosofia. Nella psicoanalisi freudiana. Vorace lettore di Kierkegaard e Nietzsche, troverà i paralleli letterari nei suoi conterranei Ibsen e Strindberg. I rapporti con i “luoghi della letteratura” incisero notevolmente sull’attività di Munch: Strindberg lo introdusse nell’ambiente letterario di Parigi, ne solleticò le ambizioni. Egli usava consapevolmente le sue fobie e la follia come materiale per il proprio lavoro, in una sorta di laboratorio sperimentale. E Munch seguì lo stesso metodo in pittura. L’interesse per il patologico, le manìe di persecuzione, il concetto di metamorfosi fondato sul positivismo evoluzionistico, sono tratti comuni tra Munch e Strindberg. Mentre da Nietzsche assimilò il tema della lotta fra i sessi, dell’amore-odio per le donne e l’idea che l’artista, in quanto essere superiore, si facesse carico di tutti i mali del mondo.

Un viaggio a Parigi e Anversa del 1885 è alla base del suo mutamento stilistico, evidente già nel suo dipinto La Bambina Malata, realizzato tra il 1885 e il 1886, preludio alla fase della maturità. Nella tela, che evocava la malattia e la morte di sua sorella Sophie, la scena, dapprima realizzata con chiarezza naturalistica, è velata da graffi e passate di colore, come se fosse un ricordo riaffiorato, o una scena osservata attraverso le lacrime. A questo punto Munch era già un pittore affermato, ma considerato maledetto, e il quadro fu molto criticato dalla famiglia e dai benpensanti. L’unico a difenderlo fu Christian Krohg, che scrisse su di lui un articolo leggendario. Le critiche positive di Krohg arrivarono in Germania e nel 1892 Munch fu invitato ad esporre i suoi più recenti lavori a Berlino. La mostra però fu uno scandalo e dovette essere chiusa: a provocare tale reazione furono opere come Autoritratto con Maschera di Donna (1891-92), in cui il ritratto del pittore campeggiava, in uno sfondo rosso acceso, sotto un volto di donna delineato come una maschera grottesca. La tela simboleggiava le passioni interiori. Il tema, capitale per il Decadentismo europeo, era quello del divario tra l’apparire e l’essere, tra la maschera indossata per conformarsi alle convenzioni e la realtà dell’anima. In quel momento prese forma nella mente di Munch l’idea del Fregio della vita, una serie di quadri omogenea per tematica e stile, in cui comporre i motivi essenziali dell’esistenza: la vita, l’amore, la morte. In queste opere Munch manifestò la piena maturità espressiva, mettendo a punto uno stile assolutamente originale con cui presentava soggetti di natura spirituale ed emotiva, tratteggiando così il ritmo lineare dell’Espressionismo. Il dipinto più celebre della serie, tappa fondamentale della pittura moderna, fu Il Grido, del 1893. Lo stesso pittore descrisse lo stato d’animo e l’episodio accidentale che diede origine alla tela: “Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo. Ero stanco e malato. Mi fermai e guardai al di là del fiordo – il sole stava tramontando – le nuvole erano tinte di rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando.” Senza dubbio il dipinto più famoso dell’artista norvegese, esempio di simbolismo per eccellenza, soprattutto per la ricerca analogica tra suono e colore.

Il motivo base è il senso di disperata solitudine. Il tratto è fluido ma aggressivo, tanto da deformare il volto dell’uomo urlante, un umanoide spettrale dalle orbite vuote. E sembra di sentirlo, quel grido, tale è la forza evocativa delle striature ondulate gialle, verdi, blu, rosse, che si diffondono verso l’alto e verso destra, vibrazioni del suono che si espande e rimbomba, coinvolgendo persino il lontano paesaggio costiero. Irrompono da sinistra, come una lama, la strada e la ringhiera, coinvolgendo lo spettatore, inglobandolo e rendendolo partecipe di quella pericolosa passeggiata. Al margine della tela due uomini, impassibili di fronte all’angoscia che il pittore ha voluto rappresentare, simbolo della effimerità e caducità dei rapporti umani: egli quindi si libera dell’ansia e dei suoi fantasmi elaborandone il motivo nella concretezza pittorica. All’inizio del XX secolo Munch oscillò tra il lirismo estatico dei dipinti paesaggistici e il ritorno sul tema della morte, che si tinse di motivi religiosi, in cui si evidenziava il contatto con un grande espressionista belga, Ensor. Si trasferì a Berlino, dove una mostra del 1902, in cui espose Il Fregio della Vita, lo consacrò come caposcuola per i giovani espressionisti tedeschi del movimento Il Ponte e per i fauves francesi. Rimase a Berlino fino al 1908, quando un tracollo psicologico, a causa dell’alcool e delle sue condizioni psichiche, lo costrinse a soggiornare a Copenaghen, nella clinica del dottor Jacobsen. Quando fu dimesso, dopo otto mesi, si trasferì in Norvegia, nella cittadina balneare di Krogero. Qui eseguì i grandi teleri per l’Università di Oslo, portati a termine, dopo tante polemiche, nel 1916. Nel 1920 si trasferì in una grande casa-studio a Ekely, vicino Oslo, dove visse dignitosamente fino alla fine dei suoi giorni. Nel 1930, colpito da cecità quasi totale a causa della rottura di un vaso sanguigno dell’occhio destro, interruppe per un periodo di tempo la sua frenetica attività. Durante la convalescenza lavorò a una serie di acquarelli e guaches sul tema dell’occhio: la parte dell’occhio colpita dal male venne rappresentata come un uccello rapace che affondava i suoi artigli nel corpo di un uomo. Nel 1937 i nazisti rimossero le sue opere dai musei tedeschi, perché considerate “degenerate”. In seguito verranno rivendute in Norvegia.

Morì a Ekely il 23 gennaio 1944, a ottanta anni, mentre i nazisti invadevano la Norvegia. Gli ultimi autoritratti lo raffiguravano drammaticamente, nella rigidità della posa fotografica, come un manichino in attesa del trapasso finale. Morendo lasciava tutte le opere alla città di Oslo, 1100 dipinti quasi tutti in condizioni precarie, strappati, graffiati, coperti di muffa e fango, e una infinità di disegni, acquerelli, incisioni. Le sue opere sono conservate a Oslo nel museo a lui dedicato, che raccoglie anche un’imponente raccolta di scritti, lettere e fotografie, con cui aveva documentato ogni attimo della sua esistenza.

(Nadia Loreti, com.unica 23 gennaio 2017)