La versione italiana dell’articolo dello studioso Felice Vinci pubblicato dalla rivista accademica internazionale “Athens Journal of Mediterranean Studies”

Questo articolo presenta i risultati di uno studio sul significato originario dei capelli di Sansone, che erano il segreto della sua forza sovrumana. Nel racconto biblico Dalila, dopo averlo indotto a confidarle che la sua forza risiedeva nei capelli, glieli tagliò, rendendolo debole e vulnerabile, per poi consegnarlo ai Filistei, che lo accecarono e lo imprigionarono. Ecco cosa ci dice il testo: «(Sansone) in seguito si innamorò di una donna della valle di Sorek, che si chiamava Dalila.  Allora i capi dei Filistei andarono da lei e le dissero: “Seducilo e vedi da dove proviene la sua forza così grande e come potremmo prevalere su di lui per legarlo e domarlo; ti daremo ciascuno mille e cento sicli d’argento”. Dalila dunque disse a Sansone: “Spiegami: da dove proviene la tua forza così grande e in che modo ti si potrebbe legare per domarti?”. Sansone le rispose: “Se mi si legasse con sette corde d’arco fresche, non ancora secche, io diventerei debole e sarei come un uomo qualunque”. Allora i capi dei Filistei le portarono sette corde d’arco fresche, non ancora secche, ed essa lo legò con esse. L’agguato era teso in una camera interna. Essa gli gridò: “Sansone, i Filistei ti sono addosso!”. Ma egli spezzò le corde come si spezza un fil di stoppa, quando sente il fuoco. Così il segreto della sua forza non fu conosciuto. Poi Dalila disse a Sansone: “Ecco tu ti sei burlato di me e mi hai detto menzogne; ora spiegami come ti si potrebbe legare”. Le rispose: “Se mi si legasse con funi nuove non ancora adoperate, io diventerei debole e sarei come un uomo qualunque”. Dalila prese dunque funi nuove, lo legò e gli gridò: “Sansone, i Filistei ti sono addosso!”. L’agguato era teso nella camera interna. Egli ruppe come un filo le funi che aveva alle braccia. Poi Dalila disse a Sansone: “Ancora ti sei burlato di me e mi hai detto menzogne; spiegami come ti si potrebbe legare”. Le rispose: “Se tu tessessi le sette trecce della mia testa nell’ordito e le fissassi con il pettine del telaio, io diventerei debole e sarei come un uomo qualunque”. Essa dunque lo fece addormentare, tessè le sette trecce della sua testa nell’ordito e le fissò con il pettine, poi gli gridò: “Sansone, i Filistei ti sono addosso!”. Ma egli si svegliò dal sonno e strappò il pettine del telaio e l’ordito. Allora essa gli disse: “Come puoi dirmi: Ti amo, mentre il tuo cuore non è con me? Già tre volte ti sei burlato di me e non mi hai spiegato da dove proviene la tua forza così grande”. Ora poiché essa lo importunava ogni giorno con le sue parole e lo tormentava, egli ne fu annoiato fino alla morte e le aprì tutto il cuore e le disse: “Non è mai passato rasoio sulla mia testa, perché sono un nazireo di Dio dal seno di mia madre; se fossi rasato, la mia forza si ritirerebbe da me, diventerei debole e sarei come un uomo qualunque”.  Allora Dalila vide che egli le aveva aperto tutto il cuore, mandò a chiamare i capi dei Filistei e fece dir loro: “Venite su questa volta, perché egli mi ha aperto tutto il cuore”. Allora i capi dei Filistei vennero da lei e portarono con sé il denaro. Essa lo addormentò sulle sue ginocchia, chiamò un uomo adatto e gli fece radere le sette trecce del capo. Egli cominciò a infiacchirsi e la sua forza si ritirò da lui. Allora essa gli gridò: “Sansone, i Filistei ti sono addosso!”. Egli, svegliatosi dal sonno, pensò: “Io ne uscirò come ogni altra volta e mi svincolerò”. Ma non sapeva che il Signore si era ritirato da lui. I Filistei lo presero e gli cavarono gli occhi; lo fecero scendere a Gaza e lo legarono con catene di rame. Egli dovette girare la macina nella prigione. Intanto la capigliatura che gli avevano rasata, cominciava a ricrescergli. Ora i capi dei Filistei si radunarono per offrire un gran sacrificio a Dagon loro dio e per far festa (…) Nella gioia del loro cuore dissero: “Chiamate Sansone perché ci faccia divertire!”. Fecero quindi uscire Sansone dalla prigione ed egli si mise a far giochi alla loro presenza. Poi lo fecero stare fra le colonne. Sansone disse al fanciullo che lo teneva per la mano: “Lasciami pure; fammi solo toccare le colonne sulle quali posa la casa, così che possa appoggiarmi ad esse”. Ora la casa era piena di uomini e di donne; vi erano tutti i capi dei Filistei e sul terrazzo circa tremila persone fra uomini e donne, che stavano a guardare, mentre Sansone f“Il nostro dio ci ha messo nelle mani Sansone nostro nemico, che ci devastava il paese e che ha ucciso tanti dei nostri”aceva giochi. Allora Sansone invocò il Signore e disse: “Signore, ricordati di me! Dammi forza per questa volta soltanto, Dio, e in un colpo solo mi vendicherò dei Filistei per i miei due occhi!”. Sansone palpò le due colonne di mezzo, sulle quali posava la casa; si appoggiò ad esse, all’una con la destra, all’altra con la sinistra. Sansone disse: “Che io muoia insieme con i Filistei!”. Si curvò con tutta la forza e la casa rovinò addosso ai capi e a tutto il popolo che vi era dentro. Furono più i morti che egli causò con la sua morte di quanti aveva uccisi in vita»[i].

Da questo passo risulta subito evidente che Dalila ha una personalità molto seducente, ambiziosa e determinata, unita ad un’assoluta mancanza di benevolenza verso il suo amante. Sansone invece appare completamente affascinato e dominato da lei, fino ad arrivare a confidarle la causa della sua forza, sebbene lei stessa per ben tre volte avesse già tentato di estorcergli il suo segreto e di consegnarlo ai Filistei.

Ora, un personaggio mitico che con Dalila presenta significative corrispondenze si ritrova nel mondo caucasico, ed in particolare nella regione georgiana dello Svaneti, dove il popolo degli Svan ha conservato uno straordinario patrimonio di folclore e tradizioni, forse risalente a più di 3000 anni fa (Virsaladze 2017, p. 13), in cui spicca la figura di Dalì, una dea della caccia conosciuta anche come Daal o Dæl. Dalì, chiamata “la Signora degli animali selvatici” (Virsaladze 2017, p. 106), appare come una bellissima donna dai lunghi capelli dorati (Davidson, 2002, p. 15), la cui carnagione è descritta come luminosa, anzi bianca al punto da emettere luce (Tuite 2006, p. 2) come attestato da uno dei suoi epiteti: “Radiante” (Rova 2016, p. 522). Viene spesso ritratta nuda (Tuite, 2006, p. 16), ma quando è vestita si tratta sempre di un abito bianco (Berman et al. 2011, p. 105).

La bellezza di Dalì era allo stesso tempo ipnotizzante e terribile; avava il potere di portare gli uomini alla follia solo per il fatto di parlare con lei. Contrariamente alle tradizionali norme di genere, spesso era lei a scegliere un cacciatore e a prendere l’iniziativa per una relazione amorosa (Tuite 1997, p. 6). Però diventarne amanti poteva anche comportare grossi rischi: per gelosia o per altri motivi, Dalì era capace di far loro del male al punto di provocarne la morte (Chaudhri 2002, p. 170).

Un importante aspetto della personalità di Dalì erano quei suoi lunghi capelli, straordinariamente forti e che “brillavano come il sole” (Charachidzé 1993, p. 260), che talvolta utilizzava per legare coloro che le avevano fatto un torto, se non addirittura per strangolare un cacciatore che gliene aveva rubato uno al fine di usarlo per il suo arco da caccia (Davidson e Chaudhri 1993, p. 159). Ma i capelli di Dalì erano anche un mezzo per minacciarla, ferirla o perfino ucciderla: in molti racconti vi sono cacciatori che la afferrano o le tagliano i capelli, per  aggredirla e sottometterla, e in qualche variante si adombra il fatto che tagliarle i capelli provochi la sua morte (Chirikba 2015, p. 178). Essa peraltro è molto vendicativa e temibile: vi è un racconto in cui la sua corrispondente mingreliana, Tkashi-Mapa, accetta con riluttanza di sposare un cacciatore che la aveva minacciata di tagliarle i capelli, ma poi lei si vendica annientando la sua intera stirpe (Virsaladze 2017, p. 231).

Da tutto ciò appare evidente l’affinità di Dalì con la dea greca Artemide (Figura 1), a cui Omero si riferisce come “la cacciatrice Artemide signora degli animali”[ii]. Inoltre, sia l’Iliade che l’Odissea ne mettono in evidenza la bellezza nonché l’abilità con l’arco, ma anche l’aspetto mortifero.

Fig 1. Particolare di un affresco di Pompei raffigurante una statua di Artemide con la corona radiata

Inoltre l’insistenza sulla dimensione luminosa, anzi “radiosa” di Dalì, insieme con il colore invariabilmente bianco dei suoi abiti, ne sottolinea la strettissima connessione col simbolismo della Luna, comune anche ad Artemide – che, quale sorella gemella del dio solare Apollo, incarna gli attributi lunari – e a Diana, la sua controparte romana. D’altronde la duplice natura di Diana, divinità lunare e cacciatrice, corrisponde perfettamente agli attributi tipici di Dalì.
Non solo: confrontando direttamente Dalì con Dalila, emergono significativi parallelismi, quali i loro atteggiamenti seducenti ma aggressivi e perfino malevoli nei confronti dei loro amanti, così come l’importanza attribuita ai capelli: però nel mito di Dalì i capelli sono i suoi, mentre nel racconto biblico il riferimento è ai capelli di Sansone (su questa differenza torneremo in seguito, perché ci darà un importante motivo di riflessione). Inoltre, come abbiamo visto, gli straordinari capelli di Dalì possono essere utilizzati per realizzare archi, dettaglio non di poco conto considerando che la forma della falce di Luna ricorda l’arco di un cacciatore (e forse non è un caso che l’arco sia menzionato due volte nell’episodio di Dalila e poi mai più nel Libro dei Giudici). A questo punto, considerando la rassomiglianza tra i nomi di Dalila e di Dalì nel contesto delle loro analogie, sembra plausibile che essa non sia casuale, ma ne rispecchi l’identità originaria: ne consegue che, data l’identificazione di Dalì-Diana-Artemide con la Luna, anche Dalila, con la sua bellezza capace di ammaliare e irretire Sansone, potrebbe aver avuto come Dalì una originaria dimensione lunare, poi oscuratasi col passare del tempo.
D’altronde la correlazione di Dalila con la luna appare finalmente in grado di dare un senso logico ai suoi tre falliti tentativi di convincere Sansone a rivelarle il segreto della sua forza. Essi infatti corrispondono alle tre fasi principali del ciclo lunare: luna crescente, luna piena e luna calante. Non solo: la ricorrenza del numero sette, tradizionalmente legato ai giorni delle fasi lunari, sia nel primo che nel terzo tentativo dà ulteriore forza a questa idea. Inoltre la menzione dell’arco nel tentativo iniziale di Dalila, emblematico delle dee cacciatrici per la sua somiglianza con la luna crescente, supporta ulteriormente questa sua interpretazione in chiave lunare.
Per inciso, la natura tripartita della Luna riflessa nel racconto biblico di Dalila potrebbe anche far luce sul significato originario dell’aggettivo latino triformis , che significa “dai tre aspetti”, attribuito a Diana: diva triformis, “concepita come triplice unità della divina cacciatrice, della dea della Luna e della dea degli inferi” (Alföldi 1960, p. 141). Invero la Diana Nemorensis sin dal VI secolo a.C. era venerata come una triplice dea nel suo bosco sacro sulla riva del Lago di Nemi, a 20 km da Roma, che Virgilio chiama Triviae lacus .
Ora, il culto di Diana a Nemi offre un altro collegamento intrigante. Secondo Servio , commentatore di Virgilio, questo culto fu fondato da Oreste, fratello di Ifigenia, che fuggì in Italia con la sorella dopo aver ucciso Toante, re del Chersoneso tarico (Crimea), e portò con sé l’immagine della Diana taurica (Frazer 1996, p. 3). Considerando che la Crimea è situata lungo la costa del Mar Nero, in prossimità della regione del Caucaso associata a Dalì, questa connessione geografica dà ulteriori motivi di riflessione. Inoltre, il ruolo significativo di Artemide negli eventi drammatici raccontati da Euripide nelle tragedie “Ifigenia in Aulide” e “Ifigenia in Tauride” sottolinea l’interconnessione fra Artemide, Ifigenia e la Diana taurica, evidenziando un patrimonio mitico e culturale comune a diverse regioni e civiltà.
Qui però occorre sottolineare che le vicende di Ifigenia raccontate da Euripide, in particolare il suo sacrificio in Aulide e la sua successiva permanenza in Tauride, non hanno nulla a che vedere con quanto Omero dice di lei. Infatti, secondo l’Iliade, durante la guerra di Troia Ifigenia se ne stava tranquillamente a casa sua, con il fratello Oreste e le sorelle Crisotemi e Laodice ! Insomma il racconto euripideo appartiene ad una tradizione del tutto estranea al mondo omerico.
Va anche ricordato che in epoca rinascimentale gli studiosi accostarono il sacrificio di Ifigenia al racconto biblico di Iefte, che offrì sua figlia in sacrificio per sconfiggere gli Ammoniti , al punto che “Il primo dramma biblico rinascimentale modellato sulla tragedia greca: Jephthes sive votum tragoedia (…) di George Buchanan traspone l’Ifigenia in Aulide di Euripide nella storia di Jefte e di sua figlia” (Shuger 1998, p. 134-135). Al riguardo, qui notiamo anche che la storia di Iefte è raccontata nel Libro dei Giudici, dove i capitoli a lui dedicati sono proprio quelli immediatamente precedenti a quelli che riguardano Sansone. Potrebbe quindi essere opportuno condurre ulteriori indagini per accertare se queste connessioni siano mere coincidenze o se invece non riflettano influenze intertestuali e culturali più profonde e significative.
Un’altra importante convergenza fra la narrazione biblica di Sansone e il mito caucasico di Dalì sembra ulteriormente rafforzare la coerenza dei collegamenti fin qui tracciati. Ci riferiamo al figlio di Dalì, concepito quando un cacciatore le tagliò le trecce mentre dormiva, la violentò e la mise incinta (Berman et al. 2011, p. 84). Ma questo figlio nato in seguito allo stupro, chiamato Amirani, nella tradizione epica georgiana è una figura di primo piano, che presenta sorprendenti somiglianze con il Prometeo della mitologia classica (Charachidzé 1986). Infatti, proprio come Prometeo, Amirani sfidò gli dei dando all’umanità la conoscenza della lavorazione dei metalli. Di conseguenza fu punito e incatenato sulle montagne del Caucaso, dove un’aquila durante il giorno divorava il suo fegato che poi si rigenerava ogni notte, analogo al supplizio di Prometeo nella mitologia greca. Per inciso, gli astronomi hanno reso omaggio ad Amirani intitolandogli un vulcano extraterrestre attivo, scoperto da una sonda spaziale su Io, una delle lune di Giove (Smith 1979).
Dopo aver osservato che Prometeo, con la sua dimensione caucasica, non viene mai menzionato nei poemi omerici – il che fa riscontro alla precedente osservazione sulle vicende di Ifigenia in Aulide e in Tauride, raccontate nelle tragedie di Euripide ma ignorate da Omero – merita di essere evidenziato il ruolo igneo-metallurgico di Amirani, corrispondente al fatto che Svaneti, la patria degli Svan che ci hanno tramandato il mito di Dalì, è stata una regione produttrice di rame di alta qualità fin dall’età del bronzo (Tuite 2006, p. 2). È inoltre interessante notare che Dalì e Artemide, la sua controparte greca, sono la madre di un personaggio strettamente legato al fuoco (Amirani) e, rispettivamente, la sorella gemella del dio del sole (Apollo).
Considerando le connessioni sia tra loro che con la Diana romana, oltre alla comune dimensione lunare emerge una complessa trama di relazioni, in cui forse potremmo inserire Tizio, che nell’Odissea condivide il supplizio di Prometeo e di Amirani , il quale a sua volta condivide con Tizio anche il collegamento con uno stupro: Amirani infatti nasce dallo stupro subito da sua madre Dalì, corrispondente di Artemide, laddove Tizio tenta di violentare Leto, madre di Artemide.
Sempre riguardo al figlio di Dalì, il suo stretto legame con il fuoco rappreesenta un significativo punto di convergenza con Sansone. In un precedente articolo (Vinci e Maiuri 2023), che qui riassumeremo brevemente, abbiamo analizzato il rapporto dell’eroe biblico con il fuoco e la lavorazione dei metalli, a partire dalle circostanze della sua nascita miracolosa. La madre di Sansone, precedentemente sterile, ricevette la notizia della sua imminente nascita da un angelo del Signore, che successivamente ascese nella fiamma che si levava da un altare dopo un sacrificio . Questo collegamento con il fuoco a sua volta s’intreccia con la dimensione metallurgica che ci ha dato la chiave per arrivare alla soluzione dell’indovinello di Sansone: “Dal divoratore è uscito il cibo e dal forte è uscito il dolce” , riferito ad uno sciame di api e del miele da lui trovati nella carcassa di un leone ruggente che aveva ucciso a Timna. Questo strano enigma, riletto alla luce di recenti ritrovamenti archeologici nella valle di Timna, regione sede di antiche miniere di rame e di attività metallurgiche (Ben-Yosef 2018), rivela un preciso collegamento con il mondo della lavorazione dei metalli: il forno fusorio, ossia il “divoratore” dell’indovinello di Sansone, consuma il minerale col fuoco, emettendo un rumore che ricorda sia il ruggito di un leone, sia il ronzio delle api attorno all’alveare, e poi da esso sgorga il rame, il cui colore ricorda quello del miele selvatico.
Sempre in quell’articolo avevamo mostrato che la soluzione dell’enigma di Sansone trova paralleli nei miti di varie civiltà, citando ad esempio la storia del leone di Nemea ucciso da Eracle ed il mito giapponese in cui Susanoo, fratello della dea del sole, sconfigge un drago – come fa anche Amirani – nella cui coda trova una spada considerata uno dei tesori della dinastia imperiale giapponese. Non a caso, Susanoo è stato definito il “Sansone giapponese” (de Santillana e von Dechend 2003, p. 205). Abbiamo inoltre preso in esame la leggenda della spada nella roccia del mito di Re Artù (Vinci e Maiuri 2023a), anch’essa decrittabile in chiave metallurgica, quale metafora della capacità degli antichi fabbri di “estrarre” una spada dal minerale di ferro: un esempio è la spada nella roccia dell’eremo di Montesiepi, nelle Colline Metallifere della Toscana. Questa leggenda è legata a San Galgano, cavaliere del XII secolo da cui prende il nome l’adiacente Abbazia, che durante il Medioevo fu un importante centro per la produzione di armi e utensili fabbricati con il ferro ottenuto dalla fusione della pirite, abbondante nella regione. Tutti questi esempi sono accostabili alla dimensione igneo-metallurgica del personaggio di Sansone, collegato al figlio di Dalì, che a sua volta corrisponde al Prometeo greco.
Perfettamente coerente con questo quadro è anche il fatto che nel nome di Sansone, שמשון, che in ebraico significa “uomo del sole” (van der Toorn et al. 1999, p. 404), è incorporata la parola ebraica per il sole (שמש). Ciò in passato ha portato persino ad ipotizzare che i capelli di Sansone rappresentassero i raggi del sole (Mobley 2006, p. 7). Inoltre un’ulteriore conferma dell’intimo rapporto tra la dimensione solare e quella metallurgica si riscontra nei miti dei Dogon del Mali, secondo cui il Sole era considerato un grande recipiente di rame fuso (Griaule 1968, p. 25), il che suggerisce l’immagine di un piccolo sole incandescente che si forma all’interno del crogiolo al culmine del processo di fusione del metallo.
Dopo aver approfondito il rapporto tra il personaggio di Sansone con il Sole e col fuoco, parallelo a quello di Dalila con la Luna, ormai è giunta l’ora di tirare le somme. Dalla nostra analisi emerge che dietro l’immagine di Sansone “indebolito” dal taglio dei capelli da parte di Dalila si nasconde una straordinaria metafora dell’incontro tra il Sole e la Luna durante un’eclissi solare totale. Nel momento culminante di questo evento, il cielo improvvisamente si oscura, una fredda tenebra scende sulla Terra e il Sole appare come un disco nero “accecato”, circondato dalla corona solare (Figura 2). La corona del Sole in effetti ricorda una bianca chioma di capelli che appare al culmine dell’eclissi, come se la Luna l’avesse staccata dal Sole, il quale a sua volta sembra aver perduto la sua luce e il suo calore, proprio come Sansone che perde la sua forza allorché viene rasato da Dalila.


Fig 2. La corona solare appare come una chioma luminosa al culmine dell’eclissi solare totale

Questa potente immagine, che ispira un arcano senso di enigmatica bellezza e di forza sovrumana, è presumibilmente stata alla base della metafora dei “capelli di Sansone” e di quella dei capelli di Dalì, che, come abbiamo visto prima, “brillavano come il sole”. Così si spiega subito anche la discrepanza tra il racconto biblico, che attribuisce la forza ai capelli di Sansone, e il mito caucasico, che invece li attribuisce a quelli di Dalì: infatti l’incertezza se la corona appartenesse al sole o alla luna durò fino all’età moderna! Invero fu solo nel 1724 che l’astronomo Giacomo Filippo Maraldi sciolse il dubbio, quando riuscì a dimostrare che la corona che appare durante l’eclissi totale appartiene al Sole. A questo punto è quasi superfluo aggiungere che l’aver risolto anche questa contraddizione rappresenta un’ulteriore conferma della validità dei ragionamenti fin qui sviluppati.
In sintesi, al culmine di un’eclissi totale il Sole sembra essere “indebolito” (poiché apparentemente non emette più luce e calore) e “accecato”, rispecchiando la condizione di Sansone quando fu catturato e accecato dai Filistei dopo che Dalila gli tagliò i capelli. Il termine stesso “eclissi” deriva dal greco antico ekleipsis, che significa “assenza, abbandono”. È interessante notare che un’associazione simile tra cecità e fuoco appare anche nella mitologia romana, in particolare nel racconto di Caeculus, il mitico fondatore di Preneste, figlio di Vulcano. Il suo nome infatti significa “piccolo cieco” e allo stesso tempo la sua storia è strettamente legata al fuoco (Bremmer e Horsfall 1987).
Inoltre, un’altra straordinaria impresa di Sansone riguarda il fuoco: “Sansone se ne andò e catturò trecento volpi; prese delle fiaccole, legò coda e coda e mise una fiaccola fra le due code. Poi accese le fiaccole, lasciò andare le volpi per i campi di grano dei Filistei e bruciò i covoni ammassati, il grano tuttora in piedi e perfino le vigne e gli oliveti” . Questo strano racconto trova un inaspettato parallelo in una peculiare usanza dei Romani: “Quando spunterà il terzo giorno dopo la partenza delle Iadi, il Circo terrà i cavalli separati nelle loro stalle di partenza. Quindi devo spiegare il motivo per cui si liberano delle volpi che portano torce accese sul dorso” . A prima vista, dare un senso a queste bizzarre storie di volpi infuocate sembra impossibile. In realtà la chiave dell’enigma la si ritrova nel folclore finlandese, dove appare una mitica volpe chiamata Tulikettu, che significa “Volpe di fuoco”, la cui coda emette scintille di fuoco mentre corre toccando il terreno innevato, i rami e i cespugli (Figura 3). Questa leggenda in Finlandia ha dato il nome all’aurora boreale: revontulet, che significa “fuochi di volpe”.

Fig 3. Un’immagine artistica della mitica “volpe di fuoco” finnica

In sostanza, le volpi infuocate del racconto di Sansone e del Circo romano rappresentano una straordinaria metafora dell’aurora boreale, che è uno dei più fantastici spettacoli celesti. Inoltre la forma allungata della coda delle volpi, soprattutto quella delle volpi rosse, ben si presta a rappresentare le luminose lingue di fuoco tipiche dell’aurora boreale, o per meglio dire, dei “fuochi di volpe” nordici.

È interessante notare che anche un passo dell’Iliade sembra alludere all’aurora boreale: “Come Zeus diffonde dal cielo un’aura ondeggiante (porphyreēn irin) per i mortali, presagio di guerra o di gelido inverno”[i]. L’aggettivo porphyreos, che significa “ondeggiante, fluttuante”, ben si adatta a descrivere le fluttuazioni dell’aurora boreale. Inoltre la corrispondenza con la guerra – che si ritrova nella mitologia nordica, dove le aurore boreali erano considerate i riflessi dell’armatura delle Valchirie[ii] – è evidente nella corazza di Agamennone, che raffigurava “serpenti azzurrognoli rivolti verso il collo, tre per lato, simili alle “aure” (irissin) che il figlio di Crono (Zeus) pone in una nuvola quale presagio per i mortali”[iii]. Queste aure simili a serpenti esprimono vividamente l’impressionante mobilità dell’aurora boreale (lascia invece perplessi la consueta interpretazione di iris come “arcobaleno”, poiché quest’ultimo, a differenza delle aurore, è un fenomeno del tutto statico e dunque non corrisponde a quanto descritto da Omero). Inoltre il termine iris è anche il nome di Iris, la messaggera degli dei nell’Iliade, il che suggerisce che i popoli antichi potrebbero aver inteso il fenomeno delle aurore boreali come presagi, forse vedendole quali espressioni della volontà divina, anche considerando che esse si presentano in modo sempre diverso l’una dall’altra. Si potrebbe addirittura ipotizzare un collegamento tra l’“aura ondeggiante” dell’Iliade e il “segno dell’alleanza” biblico che Dio pose sulle nuvole dopo il Diluvio[iv].

Ritorniamo ora a Sansone: il rapporto tra il suo personaggio ed alcuni impressionanti fenomeni celesti come l’eclissi solare e l’aurora boreale (cosa non sorprendente se si considera che il Sole è nella radice del suo nome) potrebbe riflettere una Weltanschauung che spesso si riscontra nelle mitologie del mondo antico, riassumibili con la celebre frase, attribuita a Ermete Trismegisto, “Ciò che è in basso corrisponde a ciò che è in alto”. Qui un esempio è dato dalla corrispondenza tra le sette Pleiadi e i sette colli di Roma (Vinci e Maiuri 2017), confermata dalla tradizionale data della fondazione di Roma, il 21 aprile, anch’essa direttamente collegata alle Pleiadi perché quel giorno, il primo del mese zodiacale del Toro, secondo l’antico calendario mesopotamico era dedicato a loro (Vinci e Maiuri 2019). Va altresì considerato che vi sono altre città antiche, quali Gerusalemme, Bisanzio, La Mecca, Armagh, Teheran, Bamberg, Besançon, Cagliari, Mosca, perfino Macao in Cina, e così via, la cui posizione su sette colli potrebbe essere ricondotta a questa concezione (Nissan et al. 2019).

Tutti questi elementi potrebbero anche fornire una nuova interpretazione dell’ultima impresa di Sansone, in cui i Filistei, sfruttando la sua debolezza dopo il taglio dei capelli di Dalila, lo costrinsero a girare una macina[v], ma alla fine, quando lo portarono nel tempio, “si curvò con tutta la forza e la casa rovinò addosso ai capi e a tutto il popolo che vi era dentro”[vi]. Infatti, considerando la dimensione cosmica del personaggio di Sansone (evidente nella metafora dei suoi capelli e nel simbolismo delle volpi), quella macina potrebbe simboleggiare il mitico “mulino del cielo”: esso rappresenta la volta celeste in perpetua rotazione, ben visibile durante la notte, il quale “è immagine stessa del tempo che macina incessantemente le ere, completando la misura loro assegnata (…) Il mulino per eccellenza del mito nordico è Grotti , che macina la prosperità e l’abbondanza del dio della fertilità. Dopo la progressiva decadenza delle ere il mulino del cielo verrà inghiottito e scomparirà nelle profondità dell’oceano celeste, quando il vecchio ciclo dovrà essere sostituito dal nuovo” (Chiesa Isnardi 1996, p. 183). Secondo un antico poema norvegese, il mulino Grotti era azionato da due gigantesse che, prigioniere di un re malvagio, alla fine lo distrussero applicandovi la loro forza sovrumana finché “la struttura crollò e la robusta pietra si spezzò in due”[vii]. Questo evento catastrofico, che segnò la fine di un’epoca, ci sembra accostabile all’impresa finale di Sansone. Per inciso, è interessante anche notare che una macina paragonabile sia a quella biblica che a quella nordica viene menzionata anche da Omero: ci riferiamo alla macina a cui lavora la donna che profetizza ad Ulisse la sconfitta dei Proci[viii].

Tornando adesso ai capelli di Sansone, la loro identificazione con la corona solare da un lato rafforza ulteriormente l’idea che i tre tentativi falliti di Dalila di carpire il segreto della sua forza corrispondano alle fasi crescente, piena e calante della luna, dall’altro si inserisce a meraviglia nella logica del suo quarto tentativo, quello riuscito, che corrisponde alla fase della luna nuova, allorché il nostro satellite è invisibile perché si trova dalla stessa parte del sole rispetto alla Terra: infatti è soltanto in questa fase che si può verificare un’eclissi solare totale, con la conseguente apparizione della corona.

Ci sembra anche ragionevole supporre che il racconto dei capelli di Sansone abbia avuto origine in un’epoca molto antica: forse fu ispirato dallo stupore e dal timore evocati dalle eclissi solari, che insieme con l’aurora boreale rappresentano il più straordinario dei fenomeni celesti. Tuttavia nel corso dei secoli esso deve aver subito progressive distorsioni e corruzioni, che ne hanno oscurato i tratti originari fino a renderli quasi irriconoscibili dietro la maschera della metafora in cui è rimasto nascosto fino ad oggi.

Tutttavia, come spesso accade in questi casi, quando ci si imbatte in una soluzione inaspettata, da essa nascono nuovi interrogativi. Ricordando, ad esempio, il fatto che Ra, il dio del sole egizio, era considerato sia il re che il padre del faraone, e che nell’iconografia dell’antico Egitto la corona solare, ossia un disco incorniciato dalle corna di un ariete o una mucca, veniva indossata da divinità come Horus nel suo aspetto solare, Hathor e Iside, nonché dagli stessi faraoni (Teissier 1996, p. 122), una domanda che sorge spontanea riguarda la corona che da tempi immemorabili cinge le teste dei re: che la sua origine sia stata ispirata proprio dalla corona solare? Si potrebbe infatti supporre che l’aura sacra che ha sempre circondato la figura dei re sia derivata dalla loro identificazione con il Sole stesso. Ma pensiamo anche alle punte che caratterizzano l’aspetto tradizionale delle corone radiate e dei diademi regali, nonché ai copricapi di piume dei nativi americani (Figura 4).

Fig 4. Corone radiate, diademi regali e copricapi che indicano il potere di chi li indossa potrebbero essere stati ispirati dalla corona solare

La corona radiata ha infatti un notevole valore simbolico, rappresentando il Sole e il suo splendore: era indossata dagli imperatori romani in connessione con il culto del Sol Invictus. Inoltre, raffigurazioni della corona radiata a sette raggi si ritrovano in vari manufatti antichi, come il busto di Helios[i] (Figura 4) del I secolo d.C. e l’affresco di Pompei con il ritratto della statua di Artemide (Figura 1). Ma questo simbolismo persiste anche nell’epoca moderna, come dimostra la sua presenza nella Statua della Libertà a New York (la cui rassomiglianza con quell’affresco di Pompei appena citato ci fa sospettare che il suo ideatore, Auguste Bartholdi, si sia ispirato ad esso). Né si può escludere che la presenza di sette raggi in molte corone radiate, sia antiche che moderne, in realtà sia l’ultimo vestigio di una tradizione estremamente arcaica, che probabilmente si ritrova nelle “sette trecce”[ii] che Dalila recise a Sansone.

In conclusione, non mancano i motivi per supporre che dietro la vicenda dei capelli di Sansone sia nascosta l’ultima memoria di un mito molto antico, ispirato dallo straordinario spettacolo della corona solare nel momento culminante di un’eclissi totale di sole. Siamo arrivati a questa conclusione dopo aver verificato la duplice identificazione di Dalila con la luna e di Sansone con il sole, premessa necessaria per arrivare al risultato che i suoi capelli rappresentano una sorprendente quanto luminosa (si può ben dire) metafora della corona solare. Quest’ultima infatti si manifesta nel momento in cui il sole, separato dai suoi “capelli” a causa dell’interposizione della luna, si ritrova “indebolito” e “accecato”.

Anche se col passare del tempo questo originario significato astronomico era stato dimenticato, da un lato gli aspetti lunari di Dalila-Dalì, dall’altro i legami di Sansone col sole e col fuoco (a partire dal suo stesso nome) ci hanno permesso di ricostruirlo. D’altronde questa duplice dimensione, ignea e cosmica, di Sansone sembra essere la chiave per decrittare il significato recondito di altre sue enigmatiche avventure, quali quella del leone di Timna, con le api e il miele, e quella delle volpi con la coda in fiamme, per finire con l’ultima apocalittica impresa, allorché si sacrificò facendo crollare il tempio dei Filistei. Si tratta però di questioni, così come quella dell’ipotizzata origine della corona radiata dall’immagine della corona solare, che meritano ulteriori approfondimenti.

Articolo originale in lingua inglese in www.athensjournals.gr/mediterranean/2024-5839-AJMS-Vinci-03.pdf


Riferimenti

Alföldi A (1960) Diana Nemorensis. American Journal of Archaeology 64(2): 137–144.

Ben-Yosef E (Ed) (2018) Mining for ancient copper: essays in memory of professor Beno Rothenberg, Tel Aviv: Institute of Archaeology of Tel Aviv University.

Berman M, Kalandadze K, Kuparadze G, Rusieshvili M (2011) Georgia through its legends, folklore, and people. New York: Nova Science Publishers. 

Bremmer J, Horsfall N (1987) Caeculus and the foundation of Praeneste. Bulletin of the Institute of Classical Studies 34(Suppl. 52): 49–62.

Charachidzé G (1986) Prométhée ou le Caucase. Essai de mythologie contrastive. (Prometheus or the Caucasus. Contrastive mythology essay) Paris: Flammarion.

Charachidzé G (1993) The religion and myths of the Georgians of the mountains. In Y Bonnefoy (ed.), American, African, and Old European Mythologies (Vol. I). University of Chicago Press.

Chaudhri A (2002) The Caucasian hunting-divinity, male and female: traces of the hunting-goddess in Ossetic folklore. In S Billington, M Green (eds.), The Concept of the Goddess. London: Routledge.

Chirikba V (2015) Between Christianity and Islam: heathen heritage in the Caucasus. In U Bläsing, V Arakelova, M Weinreich (eds.), Studies on Iran and The Caucasus: In Honour of Garnik Asatrian. Leiden: Brill.

Davidson H (2002) Roles of the Northern goddess. London: Routledge.

Davidson H, Chaudhri A (1993) The hair and the dog. Folklore 104(1–2): 151–163.

de Santillana G, von Dechend H (2003) Il Mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo. Milano: Adelphi. Or. ed. Hamlet’s mill. An essay on myth & the frame of time. Boston: Gambit, 1969.

Frazer J (1996) The golden bough. A study of magic and religion. London: Penguin.

Griaule M (1968) Dio d’acqua. (God of water). Milano: Bompiani.

Mobley G (2006) Samson and the liminal hero in the Ancient Near East. New York: T & T Clark.

Nissan E, Maiuri A, Vinci F (2019) Reflected in heaven, Part Two. MHNH. Revista Internacional de Investigación sobre Magia y Astrología Antiguas 19: 87–166.

Ojanen E, Linnea S (2019) Suomen myyttiset eläimet, Minerva: Helsinki.

Rova E (2016) Ishtar in Shida Kartli? About a recently discovered fragment of stone plaque. In P Corò, E Devecchi, N De Zorzi, M Maiocchi (eds.), Libiamo ne’ lieti calici, 511–532. Münster: Ugarit-Verlag. 

Shuger D (1998) The Renaissance Bible: scholarship, sacrifice and subjectivity. Berkeley: University of California Press.

Smith B (1979) The Jupiter system through the eyes of Voyager 1. Science 204(4396): 951-972.

Teissier B (1996) Egyptian iconography on Syro-Palestinian cylinder seals of the Middle Bronze Age. University Press Fribourg Switzerland.

Tuite K (1997) Pelops, the Hazel-Witch and the Pre-Eaten Ibex: on an ancient Circumpontic symbolic cluster. In J Fossey (ed.), Antiquitates Proponticae, Circumponticae et Caucasicae, 11-28 (Vol. II). Amsterdam: Gieben.

Tuite K (2006). The meaning of Dæl. Symbolic and spatial associations of the south Caucasian goddess of game animals. In C O’Neil, M Scoggin, K Tuite (eds.) Language, Culture and the Individual. A Tribute to Paul Friedrich. München: Lincom.

Van der Toorn K, Pecking T, van der Horst P (1999) Dictionary of deities and demons in the Bible. Grand Rapids, Michigan: Eerdmans.

Vinci F, Maiuri A (2017) Mai dire Maia. Un’ipotesi sulla causa dell’esilio di Ovidio e sul nome segreto di Roma. (Never say Maia. A hypothesis on the cause of Ovid’s exile and the secret name of Rome.) Appunti Romani di Filologia 19: 19-30.

Vinci F, Maiuri A (2019) Le Pleiadi e la fondazione di Roma (The Pleiades and the founding of Rome). Appunti Romani di Filologia 21: 17-23.

Vinci F, Maiuri A (2023) A hypothesis of solution of Samson’s riddle. Athens Journal of Mediterranean Studies 9(1): 271-278.

Vinci F, Maiuri A (2023a) The Hidden Meaning of the Sword in the Stone. Journal of Anthropological and Archaeological Sciences 9(1).

Virsaladze E (2017) Georgian hunting myths and poetry. Edited by M Khukhunaishvili-Tsiklauri, E Abashidze. Tbilisi: Georgian National Academy of Sciences.

………..

NOTE

[1] Gdc. 16:4-30.

[2] Il. XXI, 470.

[3] Ov., Carm. 3, 22, 4.

[4] Virg., En. VII, 516.

[5] Serv., En. VI, 136.

[6] Il. IX, 142-145.

[7] Gdc. 11:30-40.

[8] Om., Od. XI, 576-581.

[9] Gdc. 13:20

[10] Gdc. 14:14.

[11] Gdc. 15:4-5.

[12] Ov. Fast. IV, 679-682.

[13] Om. Il. XVII, 547-549.

[14] https://www.hurtigruten.com/en-au/inspiration/northern-lights/myths-legends

[15] Om. Il. XI, 26-28.

[16] Gen. 9:12-16.

[17] Gdc. 16:21.

[18] Gdc. 16:30.

[19] Gróttasongr, 88-89.

[20] Om. Od. XX, 105- 121.

[21] https://en.m.wikipedia.org/wiki/File:Helios_with_chlamys_Louvre_AO7530.jpg

[22] Gdc. 16:19.