Una suggestiva interpretazione dello studioso Felice Vinci* suggerita da importanti scoperte archeologiche nella Valle di Timna

In questo articolo si cercherà di dimostrare che l’indovinello proposto da Sansone ai Filistei – che ha per oggetto uno strano leone da lui ucciso a Timna, nella cui carcassa poi trova del miele e uno sciame d’api – potrebbe in realtà nascondere una sottile metafora relativa ai forni fusori con cui nell’antichità si producevano i metalli. Vedremo infatti che una tale interpretazione, suggerita da importanti scoperte archeologiche nella Valle di Timna, sembra confermata dall’analisi di significative analogie con racconti e tradizioni di culture anche assai lontane dal mondo ebraico.

L’episodio biblico in cui è inserito l’indovinello di Sansone si trova all’inizio del libro dei Giudici: «Sansone scese a Timna e a Timna vide una donna tra le figlie dei Filistei. Tornato a casa, disse al padre e alla madre: “Ho visto a Timna una donna, una figlia dei Filistei; ora prendetemela in moglie” (…) In quel tempo i Filistei dominavano Israele. Sansone scese con il padre e con la madre a Timna; quando furono giunti alle vigne di Timna, ecco un leone venirgli incontro ruggendo. Lo spirito del Signore lo investì e, senza niente in mano, squarciò il leone come si squarcia un capretto. Ma di ciò che aveva fatto non disse nulla al padre né alla madre. Scese dunque, parlò alla donna e questa gli piacque. Dopo qualche tempo tornò per prenderla e uscì dalla strada per vedere la carcassa del leone: ecco nel corpo del leone c’era uno sciame d’api e il miele. Egli prese di quel miele nel cavo delle mani e si mise a mangiarlo camminando; quand’ebbe raggiunto il padre e la madre, ne diede loro ed essi ne mangiarono; ma non disse loro che aveva preso il miele dal corpo del leone. Suo padre scese dunque da quella donna e Sansone fece ivi un banchetto, perché così usavano fare i giovani. Quando lo ebbero visto, presero trenta compagni perché stessero con lui. Sansone disse loro: “Voglio proporvi un indovinello; se voi me lo spiegate entro i sette giorni del banchetto e se l’indovinate, vi darò trenta tuniche e trenta mute di vesti; ma se non sarete capaci di spiegarmelo, darete trenta tuniche e trenta mute di vesti a me”. Quelli gli risposero: “Proponi l’indovinello e noi lo ascolteremo”. Egli disse loro: “Dal divoratore è uscito il cibo e dal forte è uscito il dolce» (Giudici 14:1-14).

Sansone uccide il leone (Cattedrale di San Lorenzo a Genova)

L’apparente bizzarria di questo racconto fa sorgere spontaneo il sospetto che si tratti di una ben congegnata metafora dietro cui potrebbe nascondersi un senso ben preciso. Ma quale? Rivelatore al riguardo ci sembra il fatto che nella Valle di Timna sono stati ritrovati i resti di un’attività mineraria di estrazione del rame, protrattasi ininterrottamente dal Neolitico fino al Medioevo. È qui infatti che nella seconda metà del secolo scorso l’archeologo israeliano Beno Rothenberg ha ritrovato i resti di un tempio egizio dedicato a Hathor, la dea delle miniere, costruito alla fine del XIV secolo a.C. per i minatori egizianii: ad attestarne l’importanza stanno migliaia di geroglifici, sculture e gioielli riportati alla luceii. Va altresì notato che nel 2013, l’anno successivo alla scomparsa di Rothenberg, ha avuto inizio il “Central Timna Valley Project” diretto dall’archeologo Erez Ben-Yosef dell’Università di Tel Aviv, che prosegue il lavoro precedenteiii.

Da ciò è nata l’idea che l’indovinello di Sansone sia interpretabile in chiave metallurgica, quale metafora del forno fusorio: esso infatti sembra “divorare” il minerale col fuoco, producendo un rumore sordo che ricorda il ruggito del leone (ed anche il ronzio delle api attorno all’arnia), ma poi ne sgorga il rame, che effettivamente ha un colore simile a quello del miele selvatico: “Dal divoratore è uscito il cibo e dal forte è uscito il dolce”.

A sostegno di tale ipotesi si possono trovare varie ragioni, sia nella Bibbia che in miti e leggende di altri popoli, anche molto distanti tra loro. Innanzi tutto, è proprio il personaggio di Sansone che appare fortemente legato al fuoco, a partire dal suo stesso nome, che significa “uomo del sole” o “piccolo sole”iv, ma anche perfino negli antefatti della sua nascita miracolosa, annunciata a sua madre (la quale fino ad allora era rimasta sterile) da un angelo che poi, al termine di un sacrificio, “mentre la fiamma saliva dall’altare al cielo salì con la fiamma dell’altare” (Gdc 13:20), per non parlare di quando egli “catturò trecento volpi, prese delle fiaccole, legò coda e coda e mise una fiaccola fra le due code. Poi accese le fiaccole, lasciò andare le volpi per i campi di grano dei Filistei e bruciò i covoni ammassati, il grano tuttora in piedi e perfino le vigne e gli oliveti” (Gdc 15:4-5), e subito dopo i Filistei bruciarono vivi sua moglie e il suocero: anche questo sembra ben inquadrarsi nella ipotizzata dimensione ignea del suo famoso indovinello.

Se poi ci spostiamo nel mondo classico greco, il corrispondente dell’incauto felino accoppato da Sansone è il leone nemeo (o “di Nemea”), protagonista della prima fatica di Eracle, il cui primo accenno nella letteratura greca si ritrova in Esiodo (Teogonia 327-332), a conferma della sua grande antichità. Al riguardo, ci si accorge subito che anch’esso è un “leone” molto strano, perché la sua pelliccia è invulnerabile a qualsiasi tipo di arma, ma il fortissimo eroe alla fine riuscirà a strangolarlo. Rileggendo questa vicenda in parallelo con quella di Sansone appare chiaro che abbiamo a che fare con lo stesso genere di metafora, che tuttavia nel caso dell’eroe biblico appare molto più esplicita, sia pure attraverso la copertura dell’indovinello (che peraltro sembra attestare la consapevolezza di chi per primo raccontò l’episodio).

Eracle e il leone Nemeo (anfora attica da Cerveteri)

D’altronde nella vasta casistica delle avventure dell’eroe greco ve ne è un’altra, tramandata dalla mitologia romana, che potrebbe anch’essa inquadrarsi in una dimensione igneo-metallurgica: ci riferiamo alla sua lotta, in una grotta alle falde dell’Aventino, col mostruoso, terribile Caco. Costui era un enorme gigante, ladro e cannibale, che con le sue malefatte terrorizzava i suoi vicini, finché non ebbe la pessima idea di rubare alcuni capi della mandria di Ercole, che era arrivato nel Lazio con i buoi di Gerione. Però, malgrado un suo tentativo di depistaggio (li aveva trascinati nella sua grotta facendoli camminare all’indietro per confonderne le tracce), Ercole lo raggiunse, lo afferrò e sollevandolo lo strinse con forza sovrumana, al punto che, come racconta Virgilio, mentre il mostro soffocava nella stretta mortale gli occhi gli schizzarono dalle orbite ed in gola gli si seccò il sangue: “et angit inhaerens/ elisos oculos et siccum sanguine guttur” (Eneide VIII, 260-261). Ora, Caco nel suo drammatico duello con Ercole mostra un risvolto che lo collega direttamente al fuoco: per tentare di accecare il suo avversario all’improvviso cominciò a eruttare fumo e fiamme, al punto che la sua “grande grotta si riempì di una nuvola nera” (Eneide VIII, 258).

Ercole e Caco (Piazza della Signoria a Firenze)

Insomma le modalità della lotta tra Ercole e Caco, che culmina con l’inseguimento nella grotta e lo strangolamento a mani nude, appaiono singolarmente simili all’avventura del leone Nemeo, in cui Eracle insegue, bracca e strangola quello stranissimo felino dalla pelliccia invulnerabile. Qui l’accostamento che avevamo fatto con l’ipotizzato “leone metallurgico” accoppato da Sansone, da cui esce un “miele” corrispondente al rame che sgorga dal forno fusorio, viene confermato dal fumo e dal fuoco nella grotta di Caco, che a questo punto si rivela probabilmente essere l’ultima memoria di una primordiale fucina sulle falde dell’Aventino. Inoltre il rapporto di Caco con il fuoco trova conferma nel suo stratagemma di sottrarre gli animali facendoli camminare all’indietro, lo stesso che fu usato da Hermes, l’inventore del fuocov, allorché rubò le cinquanta vacche di Apollovi.

D’altronde, secondo il Dumézil, nell’area sacrificale del mondo vedico, oltre ai due fuochi principali (uno maschio, “quadrangolare”, e l’altro “femmina”, circolare) ve ne era un terzo, il fuoco “affamato”, considerato un “fuoco divoratore” che aveva funzioni di guardia e che lo studioso ritrova nel mondo romano identificandolo con Vulcanovii: dunque è facile immaginare che il fuoco del forno fusorio, con cui si producevano le armi che proteggevano la comunità, rientrasse in questa fattispecie, a cui ben s’adatta la metafora del “divoratore”, che ritroviamo par pari nell’indovinello di Sansone. Ciò oltretutto spiega il sacrificio che il flamine di Vulcano officiava in omaggio a Maia il 1° Maggio, a conferma dello stretto rapporto tra la fucina del fabbro, che fabbricava le armi per la difesa della città, e Maia, la divinità protettrice della città stessaviii.

Restando ancora nel mondo romano, osserviamo che sempre il Dumézil sottolinea la distinzione esistente tra i comuni quirites ed i milites, ossia i cittadini sotto le armiix: ciò trova riscontro nel mito greco della nascita di Zeus, dove compaiono i Cureti, legati ai misteri della metallurgia, e, in una variante segnalata dal Kerényi, certe gigantesche apix, in greco melittai: ecco i “soldati”, in latino milites, con il loro pungiglione! Questa stessa metafora – che per di più ci consente di proporre un etimo inedito per il vocabolo miles e per lo stesso numerale mille, presumibilmente nati entrambi da una metafora suggerita dagli sciami d’api – la ritroviamo in Etiopia, deve una leggenda narra che il re Lalibela alla nascita fu ricoperto da uno sciame d’api, simbolo dei soldati che in seguito lo avrebbero difesoxi.

D’altronde la presenza delle api in un contesto legato ai misteri metallurgici ha un significativo parallelo anche nel Kalevala finnico, in un passo dove si racconta il mito dell’origine del ferro (runo IX), secondo cui il ferro nasce da un latte rosso, uno bianco e uno nero, che non a caso corrispondono ai tre colori tradizionali dell’alchimia, rubedo, albedo, nigredo (a loro volta riconducibili alle successive fasi dell’incandescenza, dove si arriva al “calor rosso” e al “calor bianco”): infatti il fabbro Ilmarinen, per temprare il metallo, ricorre al miele dell’ape Mehiläinen.

Riteniamo che nella stessa chiave sia interpretabile anche il mito giapponese in cui il dio-eroe Susanoo – figura che il de Santillana ripetutamente accosta proprio a Sansonexii, di cui sembra riecheggiare anche il nome – uccide e smembra un drago nella cui coda trova una spada, importante al punto da essere considerata uno dei tesori della dinastia imperiale giapponesexiii. Anche qui l’aspetto metallurgico appare evidente, anche considerando che Susanoo è il fratello di Amaterasu, la dea del sole.

In conclusione, ci sembra di aver verificato la plausibilità dell’ipotesi che dietro l’indovinello di Sansone si nasconda un complesso di metafore attinenti al mondo della metallurgia, che trova significativi riscontri sia di tipo archeologico – e precisamente nella corrispondenza tra il nome della località in cui è ambientata la vicenda e la Valle di Timna, dove è stato messo in luce quel grande complesso cultuale egizio legato all’estrazione e alla fusione del rame – sia di tipo mitologico e letterario, quali emergono in culture appartenenti a mondi anche lontani e diversissimi tra loro, come attestano ad esempio le vicende dell’Eracle greco e dell’Ercole romano, alle prese rispettivamente con il leone nemeo e con il mostruoso Caco, per non parlare del “fuoco divoratore” del mondo vedico e di Vulcano, delle api-soldato che si ritrovano sia tra i Cureti che nella tradizione etiopica, del miele legato alla metallurgia nel Kalevala finnico e persino della spada che Susanoo, il dio-eroe giapponese corrispondente di Sansone, trova nella coda di un drago.

È altresì evidente che questi affascinanti argomenti richiedono ulteriori sviluppi, ricerche e approfondimenti da parte dei futuri studiosi.

Felice Vinci, com.unica 19 settembre 2023


*Articolo originale in inglese pubblicato su “Athens Journal of Mediterranean Studies” dell’ATINER (Athens Institute for Education and Research): https://www.athensjournals.gr/mediterranean/2023-5410-AJMS-Vinci-05.pdf

**Nell’immagine in alto: “Sansone e Dalila” (1630), dipinto di Antoon van Dyck. Tecnica olio su tela 146×254 cm. Conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna.


Note

i www.ucl.ac.uk/archaeo-metallurgical-studies/sites/archaeo-metallurgical-studies/files/iams_12_1988_rothenberg_b.pdf

ii Tebes J.M., 2007, A land whose stones are iron, and out of whose hills you can dig copper. The exploitation and circulation of copper in the Iron Age Negev and Edom, DavarLogos 6(1): 69−91.

iii Ben-Yosef E. (Ed.), 2018, Mining for ancient copper: essays in memory of professor Beno Rothenberg, Institute of Archaeology of Tel Aviv University, Tel Aviv.

iv https://en.wikipedia.org/wiki/Samson

v Cfr. Inno omerico a Hermes.

vi Riguardo all’originaria caratterizzazione di Hermes come dio del fuoco, v. Vinci F., Maiuri A., 2022, A Proposal upon the Figure of Hermes as an Ancient God of Fire (According to the Homeric Hymn to Hermes), in Athens Journal of Mediterranean Studies, Volume 8, Issue 2, April 2022.

vii Dumézil G., 1977, La religione romana arcaica, Milano, pp. 284-285.

viii Vinci F., Maiuri A., 2017, Mai dire Maia, in Appunti Romani di Filologia (XIX – 2017), ed. F. Serra.

ix Dumézil G., 1977, La religione romana arcaica, Milano, p. 108.

x Kerényi K., 1979, Miti e misteri, Torino, p. 410.

xi http://epicworldhistory.blogspot.com/2013/07/lalibela-ethiopian-king.html

xii Cfr. De Santillana-von Dechend, 2003, Il Mulino di Amleto, Milano, p. 205.

xiii Marega M. (ed.), 1938, Kogiki, Bari, p. 154 (nota 218).