Martedì 11 maggio (ore 17:30) la Società Dante Alighieri presenta per la rassegna #PaginediStoria, in diretta streaming su Dante.global e Facebook, il volume di Edith Bruck “Il pane perduto” (La Nave di Teseo). Intervengono l’Autrice e Andrea Riccardi, moderati da Alessandro Masi.

Il pane perduto“, come ha scritto Furio Colombo nel proporlo per il Premio Strega “unisce in un’unica grande opera ciò che l’autrice ha visto, vissuto, pensato e scritto: un’amorevole dolcezza prosciuga altri sentimenti (come l’odio legittimo per l’orrore e i carnefici)”.

Per non dimenticare e per non far dimenticare, Edith Bruck, a sessant’anni dalla sua prima opera, sorvola in questo libro sulle ali della memoria eterna i propri passi, scalza e felice con poco come durante l’infanzia, con zoccoli di legno per le quattro stagioni, sul suolo della Polonia di Auschwitz e nella Germania seminata di campi di concentramento.

Miracolosamente sopravvissuta con il sostegno della sorella più grande Judit, ricomincia l’odissea. Il tentativo di vivere, ma dove, come, con chi? Dietro di sé vite bruciate, comprese quelle dei genitori, davanti a sé macerie reali ed emotive. Il mondo le appare estraneo, l’accoglienza e l’ascolto pari a zero, e decide di fuggire verso un altrove.

Che fare con la propria salvezza? L’autrice racconta la sensazione di estraneità rispetto ai suoi stessi familiari che non hanno fatto esperienza del lager, il tentativo di insediarsi in Israele e lì di inventarsi una vita tutta nuova, le fughe, le tournée in giro per l’Europa al seguito di un corpo di ballo composto di esuli, l’approdo in Italia e la direzione di un centro estetico frequentato dalla “Roma bene” degli anni Cinquanta, infine l’incontro fondamentale con il compagno di una vita, il poeta e regista Nelo Risi, un sodalizio artistico e sentimentale che durerà oltre sessant’anni. Fino a giungere all’oggi, a una serie di riflessioni preziosissime sui pericoli dell’attuale ondata xenofoba, e a una spiazzante lettera finale a Dio, in cui Bruck mostra senza reticenze i suoi dubbi, le sue speranze e il suo desiderio ancora intatto di tramandare alle generazioni future un capitolo di storia del Novecento da raccontare ancora e ancora.


Incipit del libro

La bambina scalza

Tanto tanto tempo fa c’era una bambina che, al sole della primavera, con le sue treccine bionde sballonzolanti correva scalza nella polvere tiepida. Nella viuzza del villaggio dove abitava, che si chiamava Sei Case, c’era chi la salutava e chi no. A volte si fermava e si introduceva di soppiatto nella cantina dove era spesso confinata e legata Juja; dicevano che era pazza ma a lei sembrava appena diversa dalle altre donne giovani e, con il suo cuoricino colmo di pietà, ascoltava i suoi lamenti contro la famiglia cattiva che non le aveva fatto sposare il suo ragazzo di nome Elek.

Lei avrebbe voluto farle una carezza anche se era sporca, ma quando si avvicinò, non priva di paura, Juja le strappò il nastro rosso da una delle trecce, e prima che le strappasse anche l’altro fuggì, preoccupata all’idea di essere sgridata dalla madre o dalla sorella maggiore Judit, che si atteggiava a vicemadre.

Le sorelle grandi grandi erano nella capitale a fare le apprendiste sarte, anche un fratello era in una città meno importante. A casa restavano un fratello pallidino più grande e lei, la più piccola, spesso chiamata Grattina, essendo l’ultima di sei figli vivi; le avevano dato quel nome della pasta che la madre grattava dal fondo della madia.

“Grattina, stai zitta” le dicevano se capiva troppo, invece di Ditke che era il suo vezzeggiativo.

Nelle sue corse qualche contadino baffuto le aizzava contro il cane e quando assillava la madre con i suoi troppi “perché?” lei non aveva tempo di risponderle, al più alzava lo sguardo viola-azzurro al cielo dicendole: “Chiedi a Lui e ringrazialo che è passato un altro inverno e la legna umida non piange più nella stufa.”

“E il nastro, il nastro?!” le aveva urlato appena era rientrata a casa come fosse senza una gamba.

“L’ho perso, l’ho perso” mentiva non potendo dire la verità, perché la madre, quando aveva scoperto che andava a trovare Juja la pazza, non aveva troppo esitato ad allungare la mano o a mandarla a letto senza cena, ben sapendo che quell’ultima mocciosa di figlia che aveva cacato al mondo (così diceva, se era esasperata) era attratta dai matti, dai vecchi seduti muti in strada al primo sole e dai bavosi balbuzienti che voleva capire. Aveva una curiosità poco sana, ma la madre riconosceva che era la prima della classe a scuola, nonostante le leggi razziali, che il villaggio non applicava pienamente. E le tre ragazze ebree, pur confinate all’ultimo banco, non subivano le leggi con la stessa severità delle città. La piccola Ditke era seduta accanto alle due correligionarie: Piri, figlia della merciaia Roth, Eva, figlia del bottegaio delle spezie Reisman e lei, figlia di Stein Schreiber, di un padre che in mancanza d’altro portava le bestie altrui per venderle al mercato della città più vicina per un misero guadagno.

[…]

com.unica, 6 maggio 2021