Un ricordo del grande giornalista e scrittore e di una serata in occasione della presentazione di un suo libro a Oliena

Gianni Mura si è spento ieri nell’ospedale di Senigallia, dove era stato ricoverato qualche giorno fa per un attacco cardiaco. Nato a Milano nel 1945, figlio di padre sardo e carabiniere (di Ghilarza) e di madre milanese e maestra elementare, dopo aver iniziato la sua carriera di giornalista alla “Gazzetta dello Sport”, dal 1976 è diventato una storica firma di “Repubblica”. Nel corso del suo lungo percorso professionale, oltre a scrivere pagine memorabili sul calcio e il ciclismo, ha curato per tanti anni, insieme alla moglie Paola, la rubrica di enogastronomia dell’inserto del “Venerdì”. Tra le sue opere spiccano Giallo su giallo (Feltrinelli), vincitore del Premio Grinzane, e La fiamma rossa (Minimum Fax).

Sarebbe tuttavia riduttivo definirlo un giornalista sportivo: Gianni Mura è stato soprattutto un grande narratore. Se fosse stato un calciatore lo avremmo ricordato come uno di quei fuoriclasse che da solo valeva il prezzo del biglietto allo stadio. Così per tanti (compreso il sottoscritto) la sua rubrica domenicale “Sette giorni di cattivi pensieri” di riflessioni e divagazioni colte intorno allo sport era un imperdibile appuntamento fisso che da solo avrebbe giustificato l’acquisto del giornale su cui scriveva.

Lo sport, tema universale per eccellenza e come tale capace di suscitare emozioni e coinvolgere l’immaginazione di tutti, è stato per lui una inesauribile fonte di ispirazione letteraria, così come è avvenuto in passato grazie ad autori del calibro di Arpino, Bianciardi, Buzzati e dello stesso Gianni Brera, da cui Mura ha raccolto l’eredità, anche come editorialista di Repubblica. Il ciclismo in particolare è stato per Mura l’habitat perfetto per i temi e i tempi della sua narrazione. Ne ha dato prova ad esempio in quella che forse è stata la sua opera più riuscita, La Fiamma Rossa, una splendida antologia dei più significativi reportage da una competizione sportiva che ha amato più di ogni altra: il Tour de France.

Un grande filosofo francese come Roland Barthes aveva parlato della “Grande Boucle” francese come di un racconto epico, una sorta di chanson de geste dei nostri tempi. Mura si è ritrovato in questa descrizione e ha saputo narrare le imprese eroiche dei campioni delle due ruote con uno stile asciutto e senza fronzoli, in cui ha saputo mescolare alla perfezione passione, fatica, coraggio fino a scoprire l’uomo con la sua storia che si celava dietro la maschera di sudore. E senza il pudore di nascondere le proprie predilezioni: che sono sempre state per gli eroi come Ettore piuttosto che per quelli come Achille. Se Achille era l’eroe greco per eccellenza e incarnava la perfezione, l’eroe vincente ma allo stesso tempo freddo e calcolatore, Ettore al contrario era l’eroe fragile e complesso, molto più ricco di umanità e di certo più interessante sul piano letterario. Le figure di due corridori francesi come Anquetil e Poulidor sicuramente hanno simboleggiato molto bene questa contrapposizione. Sono molto belle e profonde le descrizioni di questi campioni, raffigurati con tratti anche esilaranti, come in questo passo: “Merckx è generosità e furore agonistico, fa luce e calore. Anquetil un faro immenso, ma c’è molta più umanità in uno zolfanello acceso nella nebbia, in una lanterna appesa dietro un carro in un viottolo di campagna, una qualunque sera”.

Per Gianni Mura insomma lo sport (e il ciclismo in questo caso) non era da intendersi come pura statistica di successi e l’uomo veniva sempre prima dell’atleta. Ecco quel che ha scritto nel capitolo dedicato a un campione sfortunato da lui molto amato, Marco Pantani: “Esistono numeri uno ammirati perché vincono – scrive – ma di cui non importa granché. Tipi com’era Lendl o adesso come Schumacher. Ce ne sono altri amati per come vincono, per come li si immagina. Vanno oltre i numeri, in loro si intuisce un’umanità particolare. Colpiscono al cuore. Pantani è uno di questi.”

Anche nel calcio ha sempre privilegiato l’aspetto umano, purtroppo oggi sempre meno al centro dell’attenzione in un contesto in cui il business, gli sponsor e i procuratori la fanno sempre più da padroni. In occasione di un incontro di qualche anno fa per la presentazione de La Fiamma Rossa a Oliena aveva confermato quanto si sentisse sempre più lontano da un mondo in cui i cosiddetti “hombre vertical” alla Gigi Riva (con questa espressione immaginifica Mura aveva così battezzato un giorno il campionissimo del Cagliari) si possono contare sulle dita di una mano. Così come sempre più rari sono quei calciatori capaci di regalare poesia e bellezza con la fantasia, con un dribbling ben riuscito: in fondo è questa l’essenza di un gioco capace di riunire una platea sterminata a ogni latitudine del pianeta. “La gente va allo stadio per questo, non certo per ammirare la perfezione del 4-4-2 o per una diagonale ben riuscita”, diceva. Il calcio – così come l’aveva definito un altro scrittore molto amato da Mura, l’uruguayano Eduardo Galeano – è soprattutto l’arte dell’imprevisto. In cui, quando meno te l’aspetti può saltare fuori l’impossibile e “il nano impartisce una lezione al gigante, un nero allampanato fa diventare scemo l’atleta scolpito in Grecia”.

È anche per questo, che uno dei campioni a cui si sentiva più legato è stato un altro sardo come Gianfranco Zola, un campione di umanità dotato di specchiata lealtà sportiva come pochi altri, che a suo parere avrebbe meritato una maggiore considerazione, soprattutto in Italia. “Zola per me è stato uno degli ultimi fuochi accesi nel deserto della tecnica, spazio solo ai muscolari” ha scritto nella prefazione al bel libro di Paolo Piras Bravi & Camboni, in cui ha ricordato un suo fantastico gol di testa alla Juventus, quando come per magia saltò più in alto di due bestioni molto più alti di lui come Thuram e Zebina che cercavano disperatamente di fermarlo. “Ogni tanto – ha aggiunto – mi invitano nelle scuole e mi chiedono un solo episodio per illustrare la bellezza del calcio. Già mi sono accorto che a parlargli di Maradona o Platini si smarriscono, vivono in un presente popolato di top players che spesso sono pop players ma anche così fanno comodo. Il bello del calcio, gli dico, è che Zola è alto così e Zebina così (e faccio due altezze dal suolo, con le mani: meno di 1.70 per Zola, più di 1.85 per Zebina). Eppure Zola fa gol di testa alla Juve saltando 20 centimetri più alto di Zebina. Se c’è una cosa che mi dà fastidio è che gli inglesi abbiano capito Zola più degli italiani, molto di più. E gli inglesi non sono sardi, per tornare al discorso di Beethoven, ma forse intuiscono gli angeli al primo batter di piume, come diceva Veronelli.”

Sebastiano Catte, com.unica 21 marzo 2020

*Nella foto in alto Gianni Mura ospite della trasmissione Rai “Che tempo che fa”