Alcune riflessioni del premio Nobel per l’Economia Michael Spence: serve un approccio pragmatico

Per gran parte del secondo dopoguerra, la politica economica si è basata sulla disoccupazione. Le massicce perdite di posti di lavoro della Grande Depressione – tendenza che si è invertita solo quando la Seconda Guerra mondiale e il massiccio debito accumulato per finanziarla hanno rilanciato la crescita economica – avevano avuto un impatto duraturo su almeno due generazioni. L’occupazione però è solo una delle facce del benessere, e nel mondo di oggi non è abbastanza.

I modelli di crescita tra la Seconda Guerra mondiale e il 1980 sono stati perlopiù positivi. Le recessioni ci sono state, ma la disoccupazione restava bassa. La quota di reddito del lavoro cominciò a crescere gradualmente, con i gruppi di medio reddito, in particolare, che raggiungevano una maggiore prosperità e una mobilità ascendente. Negli Stati Uniti e in altri paesi, il mandato della banca centrale era chiaro: mantenere la piena occupazione e tenere sotto controllo l’inflazione.

Questo approccio focalizzato sulla disoccupazione persiste ancora oggi. Si riflette, ad esempio, nelle discussioni sull’intelligenza artificiale e sull’automazione, che si concentrano sempre più sui timori della disoccupazione tecnologica. L’economia americana sembra essere piuttosto in salute, perché la disoccupazione è ai minimi storici, la crescita è moderata e l’inflazione controllata.

I positivi modelli di crescita di alcuni decenni fa, però, non esistono più. Certo, ci sono economie i cui problemi principali risiedono di fatto nella crescita e nell’occupazione. In Italia, ad esempio, la crescita del Pil è insignificante da vent’anni, e la disoccupazione resta alta, oltre il 10%, con la disoccupazione giovanile che sfiora quasi il 30%. In modo analogo, nelle economie in via di sviluppo che sono in una fase precoce, l’obiettivo politico primario è la crescita dell’occupazione, per garantire opportunità ai giovani che entrano nel mercato del lavoro e ai poveri e alla popolazione sottoccupata nei settori tradizionali.

I posti di lavoro, però, sono solo il primo step. Nelle economie moderne, le sfide occupazionali sono multidimensionali, e gli occupati hanno diverse preoccupazioni su più fronti, tra cui sicurezza, salute e conciliazione lavoro-vita privata, reddito e distribuzione, formazione, mobilità e opportunità. I policymaker dovrebbero però guardare oltre le semplici misure per la disoccupazione per considerare le varie sfaccettature dell’occupazione che incidono sul benessere.

C’è senza dubbio una qualche verità in questo. I mercati hanno effettivamente strutture di rete, che forse non appaiono nella maggior parte dei modelli ma che contano in quasi ogni sfera. Alcune di queste strutture – come i meccanismi per la trasmissione di informazioni affidabili – sono positive. Altre – come quelle razionate in base alla classe sociale oppure, oggi, in base alla ricchezza – sono più problematiche.

Come dimostra, ad esempio, il recente scandalo sulle ammissioni ai college che vede coinvolte otto prestigiose università americane, i genitori abbienti sono riusciti a comprare per i propri figli un percorso in un’élite universitaria. Se da un lato la laurea di una grande università può spalancare le porte, sia segnalando abilità straordinaria o conferendo l’adesione in reti alumni influenti, dall’altro non è sicuramente l’unico modo per avere accesso ad opportunità di valore.

Negli Usa, in particolare, esistono un numero molto elevato di istituti per l’istruzione superiore, sia pubblici che superiori, con laureati che si sono distinti in diverse discipline, dall’economia all’arte e all’istruzione. Le strade per le opportunità non sono quindi così limitate come molti credono.

Questo non vuol dire che un calo della mobilità ascendente, sia relativa al passato che rispetto ad altri paesi occidentali, non sia un problema. Anzi, ci sono state ricerche importanti che hanno indagato sulle cause di questo trend, e questi studi dovrebbero orientare la definizione di politiche.

E questo è esattamente il punto: non esistono soluzioni semplici. Un dato solo – la quota di persone con un posto di lavoro – non può più essere considerato sufficiente per misurare la salute di un’economia, né tanto meno il benessere della sua forza lavoro. Servirà un approccio pragmatico che affronti le numerose dimensioni dell’occupazione che incidono sul benessere umano.

Michael Spence –  Project-Syndicate giugno 2019

Michael Spence è un economista statunitense, insignito del Premio Nobel per l’economia nel 2001 insieme a Joseph E. Stiglitz e George A. Akerlof per le loro analisi dei mercati con informazione asimmetrica. Oggi insegna alla New York University.