[ACCADDE OGGI]

C’era una vorta un Re cche ddar palazzo mannò ffora a li popoli st’editto: “Io sò io, e vvoi nun zete un cazzo, sori vassalli bbugiaroni, e zzitto. … Co st’editto annò er Boja per ccuriero, interroganno tutti in zur tenore; e arisposeno tutti: ‘È vvero, è vvero!’.” La traduzione è necessaria perché nessuno più a Roma parla come l’autore di questi versi Giuseppe Gioachino Belli: “C’era una volta un Re che dal palazzo mandò in piazza al popolo quest’editto: “Io sono io, e voi non siete un cazzo, signori vassalli invigliacchiti, e silenzio. … Con tale editto si recò il boia come portavoce, chiamando all’attenzione tutti quanti a gran voce; e il popolo intero rispose: ‘È la verità, è la verità!’.” Se la parola editto la si sostituisce con legge e al posto del boia si mettono i giornali e le televisioni, c’è da chiedersi: è cambiato qualcosa dopo quasi due secoli?  

Giuseppe Gioachino Belli morì a Roma dove era nato 72 anni prima il 21 dicembre 1863. Giusto in tempo per vedere l’Italia unita e la sua Roma capitale, ma liberale no. Lui che, pur avendo frequentato Papi e cardinali, era stato il cantore e il fustigatore della plebe, il portavoce delle ingiustizie e il vendicatore in versi delle malefatte dei potenti, si addormentò nel sonno eterno mentre ai papi si sostituirono i re che, oltretutto, parlavano una lingua molto diversa dalla sua e dalla sua gente. Con lui si addormentò anche Pasquino e il popolo perse la sua voce. Sul punto di morire ordinerà al figlio “Arda egli e distrugga dopo la mia morte tutte le carte esistenti in questa cassetta e contenenti i miei versi in vernacolo e stile romanesco, affinché non sian dal mondo mai conosciuti, siccome sparsi di massime, pensieri e parole riprovevoli”.

È lecito supporre che tra i versi che desiderava fossero distrutti v’erano quelli scritti pochi giorni prima della morte e che non hanno bisogno di traduzione: “Sori dottori, chi ssa ddimme prima come se chiama chi ggoverna er monno? Cuello che mmanna tanta ggente in cima, cuello che mmanna tanta ggente in fonno? Er Papa? er Re? – De cazzi, io ve risponno: sete cojjoni, e vve lo dico in rima. Er pelo e er priffe è cquer che ppiú se stima pe cquanto è llargo e llongo er mappamonno. Er priffe e ‘r pelo sò ddu’ cose uguale, der pelo e ‘r priffe sò ttutti l’inchini, p’er priffe e ‘r pelo se fa er bene e ‘r male. E una cosa dell’antra è tanta amica cuanto la fica tira li cudrini, e li cudrini tireno la fica. … Bbravi! Roma moderna, e Rrom’antica! Sarebbe com’a ddí: “Vostra sorella lo pijja né la freggna e nne la fica.

(Franco Seccia/com.unica 21 dicembre 2018)