Cinquant’anni fa, il 9 ottobre 1967, moriva Ernesto Guevara de la Serna, per tutti il “Che”. Il suo cadavere venne mostrato alla stampa dopo l’uccisione a sangue freddo ad opera del sergente Mario Teràn. Il giorno prima, il Che era caduto in una imboscata insieme ad alcuni suoi uomini in Bolivia, alla Quebrada del Yuro. Ferito alle gambe, era stato catturato e trasferito nella scuola del villaggio de La Higuera, dove fu lasciato senza cure per tutta la notte. Dopo che fu esposto al pubblico, al suo cadavere vennero recise le mani, per il controllo delle impronte digitali. Fu sepolto in un luogo segreto. Il 15 ottobre Fidel Castro confermò la notizia della sua morte. Le spoglie del Che torneranno a Cuba solo nel 1997 e saranno tumulate nel Mausoleo di Santa Clara.

Nel suo zaino, l’ultima pagina del diario, scritta il 7 ottobre. Era giunto in Bolivia undici mesi prima, a novembre, e iniziò a scrivere meticolosamente, riportando le dure marce nella selva boliviana, gli attacchi di asma e la mancanza di medicine, le notti insonni, gli scontri a fuoco con l’esercito, che aveva inseguito i guerriglieri con migliaia di uomini. A marzo le condizioni di salute di alcuni ribelli costrinsero il Che a dividere in due il gruppo di ribelli, ma le due parti per varie situazioni avverse non si rincontreranno mai. Fino alla fine di maggio le imboscate dei guerriglieri contro i soldati del generale Ovando Candia continuarono con successo e con pochissime perdite, cosicché a giugno il presidente, Generale René Barrientos Ortuño dichiarò lo stato di assedio, non solo a causa dei guevaristi, ma anche per le sommosse dei minatori: dopo l’attacco alla caserma della polizia di Catavi, il 24 giugno l’esercito scatenò una sanguinosa repressione, sparando sui minatori che sfilavano con l’elmetto in testa e i candelotti di dinamite infilati nelle cinture, i morti furono più di venti, molte le donne e i bambini, una settantina i feriti, mentre tutti gli esponenti sindacali furono arrestati. Nonostante il Che avesse cercato di mobilitare i contadini e i minatori, ad affiancarlo e a sostenerlo pochi giorni dopo furono gli studenti dell’università di Santa Cruz. A luglio, dopo uno scontro con i soldati e la perdita di molto materiale, gli uomini rimasti al fianco del Che sono solo ventidue. Iniziano le difficoltà, il Che è in preda a forti attacchi di asma, le medicine sono andate perdute e non ha rimedi naturali per curarsi. Intanto gli Americani avevano intensificato il loro appoggio ai generali boliviani e a fine luglio, dopo una soffiata, l’altro gruppo di ribelli si trovò con l’esercito sulle loro tracce. Nello scontro a fuoco che scoppiò morì Tania, Haydée Tamara Bunke Bider, una tedesca argentina che combatteva al fianco del Che dai tempi di Cuba, ma che fu sospettata di aver contribuito alla capitolazione della vicenda boliviana. Ormai le capacità operative erano diminuite, gli uomini erano sempre di meno, molti di loro erano feriti e stanchi. La fine giunse all’alba dell’8 ottobre 1967. Due disertori fuggiti un paio di settimane prima aiutarono l’esercito a individuare i ribelli. Furono accerchiati nel canalone di Yuro, dove non c’era via di fuga. Molti furono uccisi, altri feriti, tra cui il Che, colpito alle gambe. Mentre cinque superstiti riuscirono a fuggire, il Che venne trasportato in elicottero nel paese vicino. Avevano vinto le armi dell’esercito e i delatori invogliati dalla grossa taglia posta dal governo sul capo del comandante guerrigliero. Le ferite di Guevara non erano mortali, ma c’è voluto del tempo, anni, per mettere insieme le informazioni e fare luce su quello che accadde dopo la cattura.

Al governo boliviano non serviva un processo pubblico, perché il prigioniero era un uomo che godeva di grande fama. Doveva morire, ma non immediatamente, non da eroe, perché doveva essere evidente la sua resa, per screditarne l’immagine. L’unica scelta era di ferirlo ancora, senza ledere gli organi vitali, in modo che la morte sopraggiungesse da sola, dopo molte ore. Non si sa perché il colonnello Andrés Selich si fosse avvicinato a lui, né cosa gli abbia detto: Ernesto Guevara reagì colpendolo con uno schiaffo. Allora fu dato l’ordine di ucciderlo e il sergente Mario Teràn per riuscire nel suo compito prima si ubriacò. Al tramonto i corpi dei guerriglieri uccisi furono trasportati a Vallegrande a dorso di una lunga fila di muli. Vennero esposti nella lavanderia dell’ospedale. Qui, nel lezzo della morte, sfilarono gli alti gradi dell’esercito boliviano, che si fecero fotografare accanto al corpo del comandante Guevara, ormai trofeo di caccia. Le immagini che lo ritraggono disteso, con gli occhi aperti, con una strana vitalità nello sguardo spento, faranno il giro del mondo e contribuiranno all’alone di mito che si è rafforzato nel tempo intorno a lui. Aveva dedicato la vita ai poveri e agli oppressi, aveva creduto nel sogno bolivariano di un’America Latina unita contro l’imperialismo, “ovunque esso sia”. Era rimasto sempre fedele a sé stesso, senza protagonismi. Indimenticabile il suo sorriso, che ispirò i versi della famosa canzone Hasta Siempre, del cantautore cubano Carlos Puebla: “arrivi incendiando la brezza/ con il sole di primavera/ per piantare la bandiera/ con la luce del tuo sorriso”. Fino alla vittoria sempre.

Nadia Loreti, com.unica 9 ottobre 2017