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Non sono pochi gli italiani che hanno conosciuto Castellabate, un’autentica perla della costa cilentana, grazie al film campione di incassi “Benvenuti al Sud”. Tra questi non sono molti quelli che, nonostante l’aiuto di Alessandro Siani, hanno realizzato che, effettivamente la targa dell’equivoco causato della pioggia battente per cui il povero Bisio aveva creduto che “qui si muore” e non correttamente “Qui non si muore”, è posta a ricordo di Gioacchino Murat che nel 1811 visitando da Re di Napoli l’allora Castello dell’Abate dinanzi a quello spettacolo di natura sinceramente esclamò “Qui non si muore” . Sempre Siani nel richiamato bellissimo film di Miniero ricorda a Bisio che il Murat, nonostante quanto affermò, morì, certo non a Castellabate ma a Pizzo Calabro il 13 ottobre 1815 fucilato dalla gendarmeria di Ferdinando IV di Borbone ritornato sul trono di Napoli che proprio Gioacchino Murat gli aveva usurpato.

Chi recandosi a Napoli e trovandosi in Piazza del Plebiscito guarda la stupenda facciata di Palazzo Reale – un gioiello di architettura a cui parteciparono nel corso dei secoli grandi artisti, da Domenico Fontana a Ferdinando Sanfelici e a Luigi Vanvitelli, solo per citarne alcuni – non può non notare le otto imponenti statue poste, quattro al lato sinistro e quattro al lato destro del portone d’ingresso principale. Si tratta delle figure di sette re di Napoli e per ultimo, in maniera palesemente abusiva, del Re sabaudo “Padre della Patria”. Le statue furono collocate nelle nicchie della facciata proprio per volere dei Savoia che intendevano a loro modo testimoniare una continuità storica nelle alterne vicende del Regno di Napoli. Ma anche il visitatore meno attento e scarsamente informato sulla storia di Napoli non può non notare che tra i Re raffigurati da quelle statue, eccezion fatta per il capostipite Carlo III che morì sul trono di Spagna, mancano i Borboni di Napoli a cui Vittorio Emanuele sottrasse il regno: una omissione voluta per odio e rancore o piuttosto per inconscia osservanza dell’antico e menefreghista detto italo-napoletano “o Francia o Spagna purché se magna”? Sta di fatto che quelle statue rappresentano tutti, dai Normanni agli Svevi, dagli Absburgici agli Spagnoli, dai Francesi ai Piemontesi, tutti passati per la Sicilia, per Napoli e per il Sud d’Italia come conquistatori e regnanti e tutti con storie diverse e qualche volta straordinarie come certamente fu per Federico II “stupor mundi”. Per certi versi, ma in tono assolutamente minore, la penultima statua, quella raffigurante Gioacchino Murat Re di Napoli per solo sette anni dal 1808 al 1815, richiama la storia e il tragico destino di Corradino di Svevia nipote di Federico II.

Gioacchino Murat era francese, figlio di un albergatore che voleva per questo figlio un futuro ecclesiastico al servizio di Dio. Ma Gioacchino che amava la bella vita e non sopportava il rigore del seminario vincenziano scelse di seguire un altro dio e si votò anima e corpo al servizio di Napoleone Bonaparte fino a diventare egli stesso un Bonaparte sposando la sorella minore dell’imperatore Carolina. Fu anche un abilissimo stratega sui diversi campi di battaglia napoleonici e forse fu più per questo che per il motivo di parentela che Napoleone lo nominò Re di Napoli. Si diede molto da fare il Murat sul trono di Napoli sia come condottiero che come legislatore. Fu anche amato dal popolo che vide in lui l’artefice di una radicale trasformazione. Con l’introduzione del Codice Napoleonico mise mano alla riforma del diritto matrimoniale e della famiglia, tutelò le arti e la ricerca scientifica e si adoperò non poco per dare l’avvio a grandi opere pubbliche soprattutto in materia di innovazione ingegneristica ed è a lui che si deve la creazione, prima in Italia, della Facoltà di Ingegneria. Naturalmente fu sempre vigile alla tutela dei confini del Regno anche cercando di ampliarli e arrivò al punto di tradire il cognato imperatore pur di conservare il trono di Napoli. Ma quando l’ora del destino di Napoleone suonò, anche per Gioacchino Murat arrivò l’amara sorte che, complice le parole date e non mantenute e i soliti tradimenti e passaggi di campo sempre in ossequio al “Francia o Spagna purché se magna”, lo portarono alla disfatta, alla prigionia e alla morte il 13 ottobre 1815. A presiedere la Corte Marziale borbonica che condannò Gioacchino Murat a morte mediante fucilazione fu il generale Vito Nunziante i cui meriti furono premiati da Ferdinando di Borbone con la concessione del titolo di marchese di Cirello e larghe concessioni terrieri e il cui figlio generale Alessandro Nunziante passò armi e bagagli dal servizio della maestà borbonica a quella del vincitore sabaudo.

La cronaca e la storia ricordano la fucilazione di Gioacchino Murat nel cortile del Castello Aragonese di Pizzo Calabro con le parole da lui pronunciate dinanzi al plotone di esecuzione “Risparmiate il mio volto, mirate al cuore, fuoco!

(Franco Seccia, com.unica 13 ottobre 2017)