Un’analisi di Angelo Panebianco sulla crisi siriana e sulla strategia degli Stati Uniti

Rimettere la maionese nel tubetto. È quanto cerca di fare la comunità internazionale mentre si sforza disperatamente di pacificare il Medio Oriente. Si consideri il caso della Siria. Su che cosa si sono sempre scontrati russi e americani? Su Assad. Con i russi che lo vogliono al potere e gli americani no. Ma forse si tratta di una querelle senza senso. Perché gli uni e gli altri presuppongono che alla fine della guerra esisterà ancora una entità chiamata “Siria”.

Ma la Siria, come l’Iraq, come lo Yemen, come la Libia, erano Stati artificiali creati dalle potenze occidentali, Stati che si reggevano sul dominio di un gruppo (gli alawiti in Siria, i sunniti in Iraq, eccetera) sugli altri gruppi. Gli Stati artificiali sono esplosi. Ma la comunità internazionale è restia a prenderne atto. Quando ci riuscirà dovrà convergere su un piano che tenti di ridisegnare i confini di gran parte del Medio Oriente.

Sconfiggere militarmente lo Stato islamico è necessario ma occorre pensare a cosa mettere al suo posto. Al momento, l’idea di un nuovo piano non decolla. Sia perché i combattenti sono ancora impegnati a contendersi i territori palmo a palmo. Sia perché i governi faticano a prendere atto che la vecchia carta geopolitica, con i vecchi Stati, è ormai superata. Si spera nel prossimo presidente degli Stati Uniti.

L’Europa, probabilmente, continuerà a essere inerte. Sono molte le cause. Una di esse ha a che fare con la presenza di diffusi sentimenti anti yankee. Quei sentimenti spiegano le simpatie di una parte rilevante dell’opinione pubblica per Putin: neppure i crimini di guerra commessi dai russi al fianco di Assad le hanno intaccate. Spiegano anche perché si sia affermata in Europa una vulgata secondo la quale tutti i mali del Medio Oriente sarebbero da attribuire alla invasione americana dell’Iraq del 2003. Ci fosse ancora Saddam Hussein al potere, secondo i proponenti di questa tesi, le cose andrebbero molto meglio. Come se non fosse mai esistita Al Quaeda. E come se la guerra civile siriana non fosse stata innescata dai sommovimenti che nel 2011 sconvolsero molti Paesi arabi. Dopo l’invasione gli americani commisero degli errori ma ciò non basta a farne i principali responsabili dell’attuale disastro. Ne siano consapevoli o no, coloro che propagano queste tesi disarmano psicologicamente le opinioni pubbliche europee e non aiutano a trovare soluzioni.

Poiché solo gli Stati Uniti dispongono delle risorse, materiali e morali, per innescare, se lo vogliono, un processo di pace, affermare che essi portino la maggiore responsabilità per i guai del Medio Oriente, significa togliere a priori credibilità — di fronte a una opinione pubblica che comunque conta — a una loro eventuale azione tesa a spegnere l’incendio. Non è un aspetto secondario il fatto che se quell’azione americana un giorno ci sarà, il fin troppo popolare Putin, dopo avere spadroneggiato a lungo, si vedrà brutalmente confinato, anche in Medio Oriente, nel ruolo del comprimario.

(Angelo Panebianco, Sette/Corriere della Sera 28 ottobre 2016)