Destino, una parola che ha il sapore di essere antica quanto il tempo stesso. Vive nel nostro linguaggio come una roccia antica, levigata da secoli di mani umane, colma di enigma. Civiltà sono sorte e cadute con la propria nomenclatura: Moira sulle labbra greche, Vidhi nei versi sanscriti, Destino sulle labbra mediterranee. Indipendentemente dalla cultura, la domanda rimane: il destino è una catena che lega o una mano che spinge? È un nemico che ci assedia a ogni curva, o un co-autore invisibile, che scrive la storia della nostra vita con tratti che non possiamo vedere?

L’immagine del destino come nemico è immediata. Quando siamo delusi o in lutto, lo percepiamo come una forza impersonale, un potere che ci priva del nostro dominio, distrugge le nostre intenzioni e disperde i piani accuratamente costruiti. Una malattia improvvisa e inattesa, un’occasione persa, un rivolgimento degli eventi così imprevisto da sembrare quasi diabolico. Sono quei momenti in cui restiamo soli tra le rovine di ciò che avevamo sperato e ci chiediamo: Perché il destino ha scelto proprio me? La mente, alla ricerca di un colpevole, individua in questo silenzioso tessitore il responsabile del nostro destino.

C’è però un’altra immagine, più gentile e indagatrice: il destino come collaboratore. In questa visione, non siamo soltanto lettori di un libro già scritto, ma co-autori con un ruolo attivo, penna in mano, scrivendo insieme a un partner invisibile. Possiamo scegliere le nostre parole e azioni, ma l’altra mano, invisibile ma reale, costruisce l’ampio arazzo, intrecciando i nostri capitoli nel grande libro del mondo. E così, qui il destino non è un avversario, ma una guida misteriosa: ora ci spinge, ora ci trattiene, ma sempre ci conduce verso la storia finale.

L’antico telaio e la mente moderna

Gli antichi amavano pensare al destino in termini di telaio. Nella mitologia greca, le Moire – Cloto, Lachesi e Atropo – filavano, misuravano e recidevano il filo della vita umana. Un filo era un uomo, ma il disegno dell’arazzo era tale che le menti mortali non potevano comprenderlo. La saggezza orientale riprese spesso questa similitudine: il karma indiano immaginava una rete di azioni e frutti che si distendevano attraverso le vite, legando l’istante al passato e al futuro remoto. In tutte queste concezioni, il destino umano era certo: potevamo pianificare e faticare, ma non avremmo mai potuto discernere l’intero disegno.

Le menti scientifiche e probabilistiche di oggi preferiscono abbandonare tali immagini. Discutiamo in termini di caso, causa e deriva genetica. Eppure, quando ci imbattiamo in strane coincidenze – incontrare la persona a noi destinata proprio nel momento giusto, scampare a una calamità per puro caso senza saperne il motivo – avvertiamo ancora quell’antico richiamo di significato. Qualcosa dentro di noi giura che quell’incontro era “destinato a essere”, che gli eventi non si legano soltanto per causa ed effetto, ma attraverso una logica nascosta della storia.

Destino e libero arbitrio: la tensione eterna

L’essenza della questione è il paradosso tra libero arbitrio e destino. Gli Stoici risolsero questo conflitto abbracciando il destino come ragione nell’universo, a cui il saggio deve allineare la propria vita. Amor fati lo chiamavano: “amore del proprio destino”. Amare il proprio destino significa vivere senza amarezza verso ciò che è inevitabile, accettando anche l’avversità come parte della necessaria conformazione della propria vita.

Secoli dopo, gli esistenzialisti presero la posizione opposta. Sartre dichiarò che l’uomo è “condannato a essere libero”, che le nostre scelte ci definiscono in un universo senza significato prestabilito. In questa luce, il destino diventa un rifiuto della responsabilità, una scusa per lasciare che la vita accada invece di crearla.

Ma queste due posizioni non sono opposti inconciliabili. Se prendiamo la vita come un fiume, il destino può essere la corrente — l’acqua che scorrerà sempre — mentre il libero arbitrio è la nostra capacità di remare. Non possiamo invertire la corrente, ma possiamo regolare le nostre bracciate, la velocità, l’atteggiamento verso le curve e le rapide.

Coincidenza o disegno?

Una delle maschere più ostinate del destino è la coincidenza. Si pensi al caso dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria. Nel giugno del 1914 subì un attentato fallito quando una bomba mancò il suo veicolo. Poche ore dopo, il suo autista sbagliò strada e lo condusse davanti a un altro attentatore, Gavrilo Princip. Questo incontro casuale fu la scintilla della Prima guerra mondiale. Fu solo caso, o c’era una mano nascosta a orchestrare l’incontro per riscrivere la storia?

A livello individuale, tutti noi viviamo i nostri “momenti Princip”: situazioni in cui una decisione apparentemente insignificante o una parola detta per errore innescano conseguenze che cambiano la vita. La persona incontrata in fondo a una fila con cui ci innamoriamo. Il colloquio di lavoro mancato che ci spinge in una carriera mai immaginata. Quando il destino è il nostro co-autore, questi inciampi sono le sue svolte di trama, create per mantenere la nostra storia viva e avvincente.

I piccoli destini

Tendiamo a pensare al destino in termini grandiosi: nascite, morti, matrimoni, disastri. Ma esistono anche i “piccoli destini”: le lente e silenziose inevitabilità che scolpiscono la nostra topografia interiore. Un bambino cresciuto in un mondo privo di compassione impara a diffidare della fiducia. Un musicista costantemente rifiutato da giovane impara tenacia e flessibilità. Non sono eventi isolati, ma tendenze che, negli anni, ci plasmano in ciò che siamo.

La psicologia ridefinisce tutto ciò come l’intersezione tra personalità, abitudini e ambiente. I rischi che accettiamo, le abitudini che formiamo, le amicizie che coltiviamo: tutto questo plasma l’“autostrada” del nostro destino. Guardando indietro, può sembrare predestinato, ma ogni piccola decisione, nel momento in cui fu presa, appariva come frutto del libero arbitrio. Il destino, dunque, può essere tanto prodotto interiore quanto decreto esterno.

Il rischio del fatalismo

C’è però un lato oscuro nell’affidarsi troppo al destino: il fatalismo. Se lasciamo tutto al destino, rischiamo di diventare passivi, seduti in attesa che le cose accadano invece di contribuire a crearle. Il fatalista attende sulla riva e lascia che il fiume lo porti ovunque esso vada. Al contrario, chi rifiuta del tutto il destino rischia la hybris: credere di controllare tutto. Rema con tutte le forze, ignorando la potenza della corrente, per poi scoprire con sorpresa di non poter approdare dove desiderava.

La saggezza sta in un equilibrio: agire assumendo che le nostre decisioni abbiano un’influenza profonda, ma con l’umiltà di riconoscere che non tutto è a nostra portata. Questo equilibrio non ci allontana dall’ambizione, ma ci radica e ci ispira.

Il destino nella Letteratura e nell’Arte

Scrittori e artisti hanno da sempre riconosciuto la forza narrativa del destino. Edipo, nella tragedia greca, tenta di sfuggire al proprio fato, ma così facendo lo realizza. Romeo e Giulietta di Shakespeare vedono due amanti morire in circostanze al tempo stesso necessarie ed evitabili, come se la fallibilità umana e il destino fossero due facce della stessa medaglia. In tutte queste opere, la tragedia nasce dal conflitto tra libero arbitrio e necessità.

La vita imita l’arte in questo senso. Spesso non ci accorgiamo della mano del destino se non a posteriori, quando osserviamo i presagi, i modelli e le scene che dovevano esserci affinché il finale assumesse significato.

Più che controllo, significato

L’atteggiamento più estremo verso il destino non è forse quello di preoccuparsi meno del controllo e più del significato. Qualunque esso sia — intenzione divina, ordine cosmico, filo di cause che si perde in lontananza — il destino può offrirci un senso di collocazione all’interno del grande dispiegarsi del tempo. La nostra gioia e il nostro dolore, visti così, non sono frammenti selvaggi, ma parte di un insieme significativo, sebbene segreto.

In questa prospettiva, il destino non è né nemico né alleato, ma un co-cospiratore nella grande impresa di costruire una vita. Noi portiamo le nostre scelte, i nostri movimenti, la nostra volontà; il destino porta tempi, occasioni e limiti. Insieme, co-creiamo una narrazione che è solo nostra, ma legata a tutte le altre.

E forse la domanda migliore non è: “Il destino è il nostro nemico o il nostro co-autore?” ma piuttosto: “Come scriviamo con un partner che non possiamo vedere?” La risposta, come tutte le domande veramente utili, non si dice ma si vive: nel modo in cui accogliamo ogni giorno, ogni incidente, ogni curva del fiume, con la penna ancora in mano, pronta a scrivere la riga successiva.

Krishan Chand Sethi*, com.unica 24 agosto 2025

*Dr. Sethi K.C. – Autore. Daman, India – Auckland, Nuova Zelanda.

Condividi con